Previsioni della vigilia e della chiusura dei seggi ampiamente rispettate: “Hung Parliament”, che significa (lasciando perdere le traduzioni maccheroniche “parlamento appeso” o peggio “parlamento impiccato”) “parlamento senza maggioranza assoluta”.
Non ha vinto nessuno, di fatto. Theresa May pretendeva un plebiscito, vagheggiando margini fino a 150 seggi. E’ riuscita a prenderne meno di David Cameron nel 2015, 319 contro 331, 7 sotto il traguardo maggioranza. Ma la fosca Theresa ha perso la faccia, la credibilità politica mettendo a repentaglio la sua carica. Folle idea quella di giocare alle elezioni anticipate (dopo averle escluse in sette occasioni) come una campagna presidenziale USA, tutta incentrata sulla ricerca di un vasto appoggio personale per pilotare la trattativa Brexit in versione “hard”.
Subito dopo aver mantenuto il favore della sua circoscrizione di Maidenhead (fedele roccaforte Tory) May ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di dimettersi, decisa a presentarsi tra 11 giorni al via dei negoziati con la UE, cercando così di prendere in contropiede i vertici del partito, più che mai lividi. Sono pronti a scendere in campo per la successione l’immarcescibile Boris Johnson (favorito!), il ministro della difesa Fallon, la ministra dell’interno Rudd (rieletta per il rotto della cuffia, 346 voti in più, dopo due conteggi supplementari a Hastings), il segretario di stato al Brexit David Davis e (segnatevi questo nome) la leader dei conservatori scozzesi Ruth Davidson. May resterà quanto può: la lotta per la successione può essere lunga, salvo un golpe repentino. Ha guadagnato in fretta l’appoggio esterno dei 10 parlamentari dell’Ulster Democratic Party per continuare con una risicatissima maggioranza. Altro non poteva trovare: l’UKIP è crollato, spazzato via su tutto il fronte. Nella mossa successiva May ha chiesto l’incontro (ore 13.30 italiane) con la regina (come da prassi) per provare a formare il nuovo governo.Non ha vinto il Labour, ma Jeremy Corbyn ha strappato una risonante vittoria morale. Prendendo più seggi di Gordon Brown nel 2010, e di Ed Milliband nel 2015. Solo 2 punti percentuali meno dei conservatori quando appena il 26 aprile ne aveva 20. Tanto da chiedere, come ha fatto subito, le dimissioni di May e il mandato al Labour con un governo di minoranza in una “Progressive Alliance” che raccoglierebbe i voti dei nazionalisti scozzesi sopravvissuti al sorprendente tracollo, dei Liberals, dei 4 nazionalisti gallesi e dell’unica rappresentante dei Verdi. Ipotesi improbabile perché mancherebbe comunque il quorum, anche se i 7 deputati nordirlandesi del Sinn Fein continueranno a boicottare Westminster, riducendo la soglia per la maggioranza a 322. Corbyn ha saputo in pochissimo tempo galvanizzare l’elettorato con le sue proposte ai problemi della gente, che ha risposto con un’affluenza rilevante, aumenti di oltre il 5 % soprattutto dove serviva al Labour per resistere all’attacco Tory alle circoscrizioni in bilico (5 seggi perduti), e per contrattaccare sui feudi rivali vulnerabili (perduti 32): risultato 261 seggi, 31 più del 2015. Il manifesto di Corbyn ha mobilitato giovani, studenti, e non solo. La campagna sui social ha avuto un impatto assai più importante del cartello dei giornali abbondantemente pro May. Il resto l’ha fatto l’insospettato carisma di Corbyn a tu per tu con gli elettori e nei dibattiti che May ha snobbato per manifesta inferiorità oratoria. E l’hanno fatto anche non pochi degli elettori che hanno abbandonato l’UKIP nazionalista (-11%), in particolare i transfughi Labour che sono tornati all’ovile privilegiando il sociale sul Brexit. Shock in Scozia per l’SNP ridotto da 56 a 35 seggi a vantaggio (nell’ordine) di Conservatori, Labour e dell’esiguo partito liberale. Anche Nicola Sturgeon ha commesso un errore come Theresa May: il pressing per un altro referendum indipendentista dopo che nel 2014 aveva accettato che la vittoria degli unionisti avrebbe rinviato di una generazione un secondo voto. Sturgeon ha cambiato spartito sulla scia del Remain scozzese, ma la prospettiva di un bis ha fatto optare per i conservatori dell’ex giornalista BBC Ruth Davidson, capace di sovrastare la leader SNP sul piano personale, oltreché politico. L’avanzata dei Tories di Scozia (+ 12 seggi) ha evitato una sconfitta netta a May, proiettando Davidson ai vertici del partito e della battaglia per la successione del premier. L’SNP ha pagato con la sconfitta del suo precedente leader e primo ministro di Scozia Salmond, uno dei trombati eccellenti, come Clegg, ex leader Liberal e vicepremier del governo Cameron, e il ministro del tesoro in carica Jane Ellison. Dopo 40 anni, la politica inglese torna al tradizionale bipolarismo, con l’82 per cento dietro i due tradizionali blocchi, conservatore e laburista. L’ascesa di Corbyn significa la morte definitiva del Blairismo e il ritorno a valori nettamente di sinistra. La minaccia della scissione scozzese è rinviata sine die. Se la situazione parlamentare non dovesse sbloccarsi, in autunno si torna alle urne.
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