Forse ci chiameranno “la generazione perduta”, schiacciati tra le colpe dei nostri padri e i diritti dei nostri figli. Coloro che hanno perso la guerra, ma non quella mondiale. Si dirà che abbiamo avuto la possibilità di fare qualcosa per la nostra patria ma ci siamo tirati indietro e abbiamo preferito fuggire, scappare, darci alla diaspora pensando al nostro interesse personale.
Non abbiamo combattuto, non ci siamo chiesti cosa potevamo fare per il nostro Paese ma bensì solo cosa il nostro Paese poteva fare per noi.
La storia sarà riscritta dai vincitori e non ci sarà la nostra storia, la voce di chi è dovuto andarsene, chi ha dovuto abbandonare casa, affetti, tutto perché ormai disperato da un’Italia stretta tra l’assenza strutturale di offerta di lavoro e l’impossibilità di crearsi un’attività propria.
Non ci saranno le voci di chi si è accontentato e ha tirato a sopravvivere senza lottare.
Non ci saranno le tante testimonianze di chi, che per fare quello che voleva, è dovuto emigrare.
Non ci sarà la voce di chi poteva fare grandi cose ma non ha trovato nessuno che credesse in lui.
Oppure no. E allora si racconterà di quella generazione che ha dovuto ricostruire questo Paese che vive ormai da decenni della sbiadita ombra dei propri fasti passati.
Di quella generazione condannata, per grande parte, a dover emigrare per sopravvivere ma con nel cuore sempre la propria casa. Quella generazione che ha capito che serviranno anni, decenni per poter avere un futuro per sé e per i propri figli.
Quella generazione che ha finalmente capito che per cambiare le cose, si deve avere il coraggio di mettersi nelle mani di una nuova classe politica, fatta di nuovi volti e di nuove sigle.
Esattamente quella che oggi non c’è.
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