Nubi su economia e finanza, ma l’inflazione è destinata a flettere

Mi Il timido riaffacciarsi delle colombe nell’Eurotower e la salda preda dei falchi sulla Federal Reserve, costituisce l’occasione per riflettere sulle discrepanze tra le aspettative che prevalevano nei mercati globali alla fine del 2023 e la realtà in cui ci troviamo immersi a metà anno. A Capodanno era opinione comune che l’inflazione negli Usa stesse planando decisamente verso il 2% e la Fed avrebbe reagito con un taglio dei tassi ufficiali già a marzo, ribassandoli aggressivamente nel corso dell’anno. La Bce sarebbe entrata nella scia della Fed (Christine, adelante con juicio), qualche mese dopo perché l’inflazione in Eurolandia era percepita come più vischiosa. Per di più sul quadro macroeconomico globale incombeva il rischio di una recessione, evidenziato dall’inversione della curva dei rendimenti sui titoli del debito pubblico e dall’esaurimento dei sussidi elargiti durante la pandemia. Sei mesi più tardi, la certezza sulle decisioni della Fed è evaporata dopo il ritorno di fiamma dell’inflazione. Addirittura qualche autorevole economista, come Larry Summers si è sbilanciato a vaticinare che la prossima mossa dell’Fomc sarà al rialzo, non al ribasso. Invece la Bce ha trovato il coraggio di sforbiciare i tassi, vista la precaria congiuntura economica in Eurolandia. Un’altra discrasia tra realtà e previsioni si è manifestata nei mercati azionari: col rischio recessione sull’orizzonte, le indicazioni dei gestori sui maggiori indici per il 2024 erano improntate alla prudenza. Il fortino degli utili aziendali avrebbe retto solo se irrobustito da una diminuzione degli oneri finanziari. Al contrario, anche senza i tagli della Fed lo S&P500 ha macinato circa 25 record assoluti nel 2024. Le notti di inizio estate saranno pervase da un assillo: i corsi azionari saranno ancora immuni dalle decisioni future della Fed? Probabilmente no. L’S&P500 è un indice bicefalo: la sua performance è stata trainata dai colossi tecnologici, “I Magnifici Sette”, i cui utili dipendono solo marginalmente dai tassi d’interesse. L’esempio cristallino è Nvidia, travolta dallo tsunami di ordini per i suoi chip super performanti grazie al boom di investimenti in Intelligenza Artificiale. Uno tsunami che ha miracolato anche società come Microsoft, Alphabet e la Apple le cui ampie riserve di liquidità le immunizzano dai mercati creditizi. In sintesi, i giganti hi-tech di Wall Street sono soggetti a criteri di valutazione slegati da quelli delle aziende prive del sex appeal conferito dall’Ia. Infatti, l’indice S&P 500 equal-weight è salito di poco più del 4% nel 2024, contro 1’11% dell’indice S&P500 standard, distorto dalle capitalizzazioni trilionarie. Parimenti, l’indice delle small cap Russel 2000, è aumentato da San Silvestro di uno striminzito 3,7%. Persino l’EuroStoxx50 nell’euro area (dove l’Intelligenza artificiale è il bersaglio di burocrazie deliranti e non spinge i listini) ha dato soddisfazioni migliori nel 2024, con un’ascesa di oltre l’11%. In sostanza, i margini delle aziende “old economy” negli Usa vengono erosi dal rifinanziamento dei debiti a tassi più onerosi, proprio nel momento in cui le famiglie hanno esaurito i risparmi accumulati durante la pandemia e sono tornate ad indebitarsi. Non a caso la fiducia dei consumatori ristagna, nonostante la resilienza dell’occupazione e l’aumento dei salari: a maggio, per il quarto mese consecutivo, le aspettative del Conference Board si sono attestate sotto la quota 80 che segnala una recessione in atto. Tra gli atri segnali negativi spicca l’indice mensile Pmi dell’Ism nel settore manifatturiero: dal novembre del 2022 solo una volta, a marzo 2024, ha superato (marginalmente) il livello 50, che delimita il confine tra recessione ed espansione. Le bancarotte risalgono da sette trimestri verso i livelli toccati durante il Covid. I prezzi di petrolio e gas calano a causa della domanda asfittica, nonostante i tagli alla produzione decisi dall’Opec+. Inoltre, sta montando l’incertezza sui risultati delle elezioni del 5 novembre, visto che nessuno dei due candidati ha un piano economico coerente, né è prevedibile quale maggioranza (e quanto solida) emergerà nei due rami del Congresso. In conclusione, alla Fed, ispirati dai colleghi della Bce, farebbero meglio a lasciar perdere i dot plot in apatica e imbelle attesa di dati che confermino il deterioramento dell’economia. L’inflazione, per quanto ancora superiore al 2%, non è alimentata da impulsi inusitati, come evidenziato dai dati di maggio, quindi nel medio periodo è destinata a flettere.

L’Articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore

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