Fra pochi giorni ricorrerà il 75mo anniversario di Nikolajewka ed è nostro dovere commemorare i caduti di quei giorni e di tutti i caduti sul Fronte Orientale. Pubblico una testimonianza del Ten. Vita, Ufficiale del Tirano, che da un lato descrive l’eroico comportamento degli Alpini e dall’altro accusa il cinismo degli sbandati.
L’allarme era scattato alle tre e mezzo del mattino dopo che per tutta la notte si era susseguita la violenta sparatoria verso l’estremità sud-ovest di Nikitowka; tra le isbe cominciano a piovere sempre più frequenti i colpi di mortaio mentre un gruppo di partigiani, al riparo di alcuni muretti diroccati, inizia un intenso fuoco contro gli alpini che si stanno radunando al centro dell’abitato. Oggi il battaglione Tirano è all’avanguardia della lunga colonna in ritirata e muove con le compagnie nel seguente ordine: 46a-49a-C.C.T.-109a A.A.-48a; in coda, la teoria delle slitte con a bordo i feriti, i congelati e le poche armi ancora efficienti. Infiliamo la pista che conduce a Nikolajewka, che dopo aver descritto un’ampia curva intorno al paese, sale lentamente alla selletta di Arnautowo, piccolissimo abitato costituito da una ventina di misere isbe. La testa della colonna si trova a circa 400 metri dal valico allorché viene improvvisamente investita da una violentissima scarica di mortai, prendendo così alla sprovvista gli alpini che cercano protezione in un vicino boschetto di betulle; i colpi si susseguono sempre più precisi e possiamo facilmente individuarne la provenienza: in parte da Arnautowo e in parte da macerie al limite dell’abitato, dunque alle nostre spalle! Il comandante del battaglione Tirano, Taccagno, non esita ad inviare un reparto col compito di snidare questi franchi tiratori arroccati ancora a Nikitowka, quindi ordina al plotone esploratori della 46a, alla guida del sottotenente Perego, di eseguire una ricognizione alla selletta di Arnautowo: le restanti compagnie devono nel frattempo serrare i ranghi, ricostituirsi e prepararsi al combattimento. I cannoni da 47/32 della 109a vengono sollecitati a più riprese dai portaordini ma non riescono purtroppo a farsi strada causa la pista sconvolta dai morti e feriti, dalle slitte rovesciate e dai muli imbizzarriti. Viene infine ripresa la marcia ed arrivati ad un modesto pianoro, Taccagno, che nel frattempo ha ricevuto notizie allarmanti da Perego circa la forza del nemico che occupa saldamente il valico, impartisce l’ordine di attacco alle compagnie del battaglione. La 46a deve dunque schierarsi al centro e sulla destra della selletta alle spalle di quattro isbe diroccate, la 49a sulla sinistra mentre la compagnia comando viene spinta sulla destra con il compito di operare un largo movimento aggirante sul fianco dell’avversario che continua a far fuoco con mortai e cannoncini a tiro rapido. Sentiamo lanciare rauchi “Hurrah…” ed ecco i russi avanzare sulla destra della selletta, ma le mitragliatrici e le bombe a mano della 46a li fermano decisamente sul ciglio estremo. La temperatura si mantiene sempre assai rigida e col passare del tempo la situazione non accenna a migliorare: a due Breda si è congelato l’olio e neppure il fuoco acceso al riparo di un’isba riesce a sciogliere quel blocco di ghiaccio; anche un mitragliatore, al centro della linea, tace di colpo, alcune bombe a mano non riescono a scoppiare nella soffice neve. I feriti, adagiati accanto a due muretti, invocano aiuto… Accanto alle isbe di Arnautowo, ove il Tirano sta combattendo la battaglia per la salvezza dell’intera colonna in ritirata, una trentina di artiglieri del gruppo Bergamo, morti congelati ed abbracciati ai loro pezzi, nelle pose più drammatiche e tragiche, restano i muti testimoni dell’eroismo dei loro fratelli alpini! Così è finito per questi oscuri artiglieri il tragico combattimento della notte innanzi, i cui echi, da noi tutti che stavamo a Nikitowka, erano stati perfettamente uditi. Veniamo intanto informati che Perego è caduto e che il capitano Grandi, comandante la 46a, è ferito gravemente: la furia del combattimento si è frattanto spostata sulla sinistra della selletta, investendo in pieno la 49a. Sulla neve, carponi, ecco che mi si avvicina il portaordini Robustelli con un messaggio di Taccagno: raggiungerlo subito per comunicazioni. Lo trovo poco dietro, accanto al colonnello Adami, comandante il 5° alpini, ambedue preoccupati e pensierosi. Mi affida il comando della 46a, ordinandomi di fare affluire in linea uomini e munizioni nonché di rafforzare le nostre posizioni. I russi infatti stanno ora decisamente attaccando sulla sinistra della selletta, ma la “49a di Dio” non molla neanche un metro di terreno: la neve è rossa del sangue delle “penne nere” che, le dita incollate sulle mitragliatrici, sparano a zero contro il nemico che avanza. “Non si cede…!” questo è il grido degli alpini che viste incepparsi due armi automatiche si buttano al contrattacco; nell’azione che segue cadono da prodi, alla testa del reparto, il capitano Briolini, comandante la 49a, i tenenti Nicola e Soncelli, mentre a terra resta gravemente ferito il tenente Calvi. La sparatoria non dà requie, la 46a e la 49a sono rimaste quasi senza munizioni, i russi non accennano ad alleggerire il loro impeto: è un momento molto critico per tutti ma finalmente vediamo arrivare i primi rinforzi sotto forma di reparti della 109a e della 48a che a fatica riescono a piazzare due mortai da 81 e due cannoni da 47/32 iniziando un tiro rapido contro l’avversario: era proprio ora! Vado a trovare Grandi in una delle isbe adibite ad infermeria: il tenente medico Taini scuote la testa. L’addome è forato in più parti e quasi nulle sono le speranze di poterlo salvare: si era lanciato con due bombe a mano contro una ridotta russa, ma una sventagliata di parabellum lo aveva subito inchiodato al suolo, nel suo generoso tentativo di distruggere quel centro di fuoco che teneva sotto tiro la postazione del tenente Darè. Accanto a Grandi i corpi dilaniati di Perego, di Torelli e di tanti alpini. Tutt’attorno si accatastano i feriti in un clima di gelo polare, in una allucinante confusione di urba, di grida e di invocazioni: i due medici ben poco possono fare, esaurite come sono da tempo le scarse dotazioni sanitarie. Mentre la C.C.T. prosegue nel suo movimento aggirante, ecco entrare in azioni due cannoni da 75/13 di un nostro gruppo di artiglieria divisionale nonché la squadra mitraglieri della 48a. Il caos delle retrovie non aveva permesso ai rinforzi di uomini e alle grosse bocche da fuoco di raggiungere la selletta in tempo utile; così il Tirano, basandosi unicamente sulle proprie forze, aveva dovuto sostenere tutto da solo il peso del tremendo combattimento ed immolarsi, con quasi metà dei propri effettivi, per aprire la via per Nikolajewka alla colonna in ripiegamento. I morti e i feriti infatti non si possono contare tanto il terreno è disseminato di alpini, tragiche macchie scure sulla bianca neve sconvolta dalla furia della battaglia. Il fuoco nemico, sulla sinistra della selletta, accenna ora a smorzarsi e ne approfitta tutta la 48a, comandata dal tenente Piatti, slanciandosi all’inseguimento del nemico che abbandona armi, munizioni e lasciando sul terreno anche decine di caduti. La 46a, la 49a e la 109a si fermano invece alla selletta di Arnautowo per riordinare i reparti superstiti e provvedere al carico sulle slitte dei tantissimi feriti: verso le dieci del mattino, la colonna può riprendere la marcia in direzione di Nikolajewka, sulle orme di quell’amorfa massa di sbandati di tutte le nazionalità e specialità, che, spettatori imperturbabili del combattimento senza mai prestare alcuna forma di collaborazione o di assistenza, non avevano esitato, al termine dell’azione, a scavalcare il nostro battaglione, passando tranquillamente con le loro slitte e i loro muli sui cadaveri ancora caldi dei nostri alpini caduti in combattimento… Ben fece Giudici, valoroso sergente della 46a, che imbracciato il mitragliatore aprì rabbiosamente il fuoco contro quelle centinaia di soldati, senza vergogna ne pietà… Carichiamo Grandi su una slitta, avvolgendolo nelle coperte intrise di sangue: è ancora vivo, respira faticosamente scosso dai brividi, sembra quasi voglia sorridermi quando gli dico: “Forza, Grandi, coraggio…” ma si vede che stenta a tenere gli occhi aperti. Il tenente De Minerbi gli accarezza il viso e gli alpini continuano a mormorargli: “
Forza, signor capitano, ce la farà…!”. Grandi scuote la grossa testa avviluppata nel grigio passamontagna incollato alla barbaccia dal gelo di questi giorni, ma ci accorgiamo che le nostre parole non vengono comprese. Ad un tratto, però, lo sentiamo sussurrare: “Tirano… mai tardi!…”. poi, dopo un attimo di silenzio, accenna ad intonare le prime parole della famosa e nostalgica canzone: “Il capitano l’è ferito…”. È un momento di profonda commozione per noi presenti… Giudici e Clementi a voce bassa continuano la strofa “…l’è ferito e stà per morire …” ma non riescono più a continuare: scossi dai singhiozzi piangono come bambini! Muti e silenziosi seguiamo la slitta sulla quale ci pare che Grandi continui tristemente a sorridere… E così la colonna dei superstiti riprende la sua dolorosa marcia mentre il freddo sempre più intenso paralizza le nostre membra e tortura i poveri feriti ammucchiati nelle slitte. Gettiamo un ultimo sguardo a quella tragica selletta , tomba del battaglione Tirano, con gli occhi velati da lacrime: ovunque cadaveri di alpini irrigiditi dal gelo della steppa. Quanti magnifici eroi di quella gloriosa giornata che la tragedia della guerra ci obbliga purtroppo ad abbandonare e lasciare in balia del nemico, senza neppure il conforto di una piccola rozza croce: rimasero lassù ad Arnautowo, soli, uno accanto all’altro, riversi sulla neve chiazzata di rosso, accanto alle loro armi che fino all’ultima cartuccia avevano sparato contro il tenace avversario! I pochi alpini del battaglione Tirano, circa 200 uomini della 46a della 49a e della 109a , raggiungono verso le 14 di quel 26 gennaio, dopo aver attraversato l’intera piana, il bastione di fronte a Nikolajewka: la 48a , al termine del combattimento di Arnautowo, aveva proseguito nel proprio slancio accodandosi al battaglione Edolo mentre la C.C.T., rientrata dal suo brillante aggiramento, era stata inviata dietro ordine di Adami a riforzare un altro battaglione del 5° alpini. Un’immensa colonna di uomini e di slitte è ora ferma sulla neve, immobilizzata dalla violenta reazione di fuoco proveniente dalla linea ferroviaria che corre proprio di fronte all’abitato: ha così inizio il secondo tragico combattimento della giornata, l’ultimo del nostro ripiegamento, quello che avrebbe però dovuto decidere della salvezza di decine di migliaia di soldati. In quella bolgia di uomini laceri e spossati, sotto i colpi di mortaio che dove cadevano sicure erano le vittime, andiamo a cercare il collegamento con il comando del 5° alpini e col battaglione Edolo. Veniamo così a sapere che i battaglioni Val Chiese e Vestone del 6° alpini stanno attaccando sotto un fuoco infernale lo sbarramento russo: il nemico, abbarbicato al terrapieno della ferrovia e alle numerose isbe, in posizione predominante, può facilmente battere con il tiro rapido delle sue armi i nostri reparti che tentano l’avvicinamento alle rotaie. Diversi colpi di mortaio provocano ancora vittime fra gli alpini del Tirano, la cui colonna è sempre ferma in attesa di ordini… Anche i micidiali “Rata” scendono a mitragliarci da bassa quota, passano e ripassano lanciando fra noi spezzoni incendiari: ma ecco due slitte prendere fuoco e i muli, avvinti alle stanghe e impazziti dal terrore, si slanciano col loro carico in una folle corsa abbattendo gli uomini che incontrano sul loro tragitto. I feriti dalle slitte chiedono aiuto, urlano per un sorso d’acqua, implorano il medico: purtroppo quello che si poteva fare è stato fatto e non abbiamo assolutamente nulla per dare a questi nostri fratelli un sia pur minimo conforto materiale. Vedo passare il cappellano padre Corsara che si avvicina alle slitte per portare la sua parola di rassegnazione; anche padre Tonidandel, irriconoscibile nella coperta che lo avvolge, si adopera per assistere i tanti feriti. Ma finalmente riusciamo a raggiungere la 48a: siamo sulla sinistra dell’abitato, accanto all’estremo sottopassaggio della ferrovia, mentre alla destra, vicino a un mucchio di macerie, è arroccata la compagnia comando: quest’ultima compagnia aveva già respinto un attacco russo ma era riuscita, dopo un eroico contrattacco, a ristabilire le posizioni. Il suo comandante, tenente Alessandria, impartisce gli ordini da una slitta ove giace gravemente ferito al volto e mi comunica l’eroica morte del giovane sottotenente Slataper che, slanciatosi all’assalto del nemico e colpito per due volte in pieno petto dalla mitraglia, aveva trovato la forza di gridare agli alpini del suo plotone nel suo inconfondibile dialetto triestino: “Dài fiòi… forza Quinto… Viva l’Italia…!”. I russi stanno intensificando la loro sparatoria e gettano nella battaglia tutto il peso delle loro artiglierie; con i pochi alpini rimasti della 46a mi avvicino sempre più all’abitato, infilandomi in un cuneo sulla destra del sottopassaggio: vedo alcuni reparti ondeggiare avanti e poi indietro, poi scorgiamo un forte reparto russo saltare giù dal terrapieno della ferrovia e venire fatto letteralmente a pezzi dalle armi della 48a. Calano le ombre della sera, il freddo è davvero pungente! Mentre il fuoco aumenta di potenza, ecco il battaglione Edolo sfilare sulla nostra destra unitamente ad un battaglione del 6° alpini: si stanno dirigendo verso la curva della ferrovia, aspramente contesa ma ancora terra di nessuno. Vedo correre Novello che urla: “Di là è la salvezza, alpini! Di là vi è l’Italia! Forza “veci” del Quinto…” ed ecco che si formano plotoni e reparti, si improvvisano squadre, tutti concorrono a questo estremo generoso sforzo, dal generale all’ultimo alpino; è sufficiente possedere ancora un fucile, una bomba, una baionetta, e via! all’assalto dell’ultimo ostacolo, oltre il quale, ci dicono, ci sia davvero la salvezza. Disorientati ed attoniti i russi abbandonano lentamente le difese più avanzate: la piana di Nikolajewka risuona di urla e di grida, sono i soldati di tutte le nazionalità che si slanciano all’assalto del terrapieno superandolo di slancio, cadono, si rialzano, manovrano, poi come belve piombano sul nemico: ciò che importa è di fare presto! La 48a è magnifica nella sua azione, ma il suo comandante, tenente Piatti, alla testa degli alpini, è fermato di colpo nella sua corsa da una scarica di parabellum che lo inchioda all’uscita del sottopassaggio. Tutti si sono messi ora in moto, anche le slitte, che entrano di corsa nel grosso borgo per procurare al più presto un tetto e un po’ di calore al loro carico di sofferente umanità. Sono quasi le venti, è già buio fitto, allorché raggiungiamo il centro di Nikolajewka, in preda ad una confusione che mai nessuno avrà la forza di descrivere nei suoi reali termini. In un’isba semivuota faccio scaricare le slitte dei feriti: cosa mai possiamo fare per questi poveretti? Tanti purtroppo sono spirati nel corso della giornata, altri, intorpiditi dal gelo, respirano a fatica, stretti in una morsa di ghiaccio. Grandi è ancora vivo, balbetta qualche parola ma non ne comprendiamo il significato: gli occhi sono chiusi, trema per tutto il corpo. Il tenente medico Taini mi consiglia di non muoverlo ma di lasciarlo tranquillo. Alle due di notte, ecco giungere l’ordine di immediata partenza, mentre su Nikolajewka ricominciano a cadere colpi di mortaio: accelero al massimo le operazioni di carico dei feriti sulle poche slitte rimaste, i cui muli, per nostra fortuna, hanno trovato magro sostentamento nella paglia dei tetti delle isbe e parecchi di essi sono ancora in grado di tirare il loro prezioso carico. A pochi chilometri fuori dell’abitato mi avvisano che Grandi è spirato. Mi avvicino alla sua slitta e sollevo la coperta che lo avvolge: dorme in pace, ha il viso sereno. Ad un centinaio di metri di distanza mi indicano i muri di un’isba semidistrutta: lo adagiamo sul terreno gelato dopo averlo ricoperto di un soffice strato di neve candida. Addio per sempre, nostro valoroso comandante, la tua lunga giornata terrena volge al termine. È il 27 gennaio 1943. E si riprende l’estenuante marcia in direzione di Uspenka, quell’incr
edibile marcia che sta sospesa fra l’umano e l’irreale, un piede avanti all’altro, l’automatismo naturale del passo, quasi una tortura il doverli posare sulla coltre lucida e gelata che nega persino il conforto di un sorso d’acqua. Fermarsi, anche per un solo istante per riprendere fiato, significava entrare insensibilmente nell’immobilità statuaria che solo il primo tepore a primavera avrà il potere di sciogliere e di scomporre. Avanti, avanti verso ovest, perché solo in quella direzione sappiamo esserci la salvezza per tutti noi, la nostra “baita”, la nostra Italia tanto lontana.
Tenente Arturo Vita (Fronte russo)
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