Quando si parla di operazioni militari la speranza è sempre che esse possano svolgersi in un clima che riduca al massimo o addirittura escluda l’uso della violenza. Vi sono poi a volte situazioni particolari che possono indurci a configurare le nostre missioni in modo tale da sperare che , pur nel generale clima conflittuale in cui sono inserite , esse vengano viste quasi come “missioni di pace” , evitando così di divenire un privilegiato bersaglio per l’avversario. Allorché ciò avviene il livello di rischio per il personale impegnato può , forse assurdamente , rivelarsi maggiore di quello insito nelle normali operazioni , soprattutto quando una momentanea apparente sicurezza induce ad abbassare la guardia. Parimenti elevati sono poi i rischi di altro tipo che corrono i Governi e le forze politiche cui risale la responsabilità del coinvolgimento delle forze nonché le opinioni pubbliche che hanno accettato l’idea dell’indispensabilità dell’intervento. Una situazione di questo tipo, a ben guardare, e’ quella delle cinque missioni su cui si articola in questo momento la nostra presenza in Iraq , missioni che almeno per Il momento non comportano l’uso della forza e che potrebbero non comportarlo mai , se saremo particolarmente fortunati. E’ vero , esse non sono in realtà missioni di pace , visto che si svolgono su richiesta di un governo che è in guerra ed avvengono nel quadro di una coalizione di alleati che lo sostiene nel suo sforzo per recuperare la parte del territorio nazionale occupata. Hanno però tutte una natura e caratteristiche particolari che fanno si che la nostra opinione pubblica le percepisca come tali e questo probabilmente spiega perché il Governo non abbia incontrato , nel farle accettare , le medesime difficoltà che hanno invece caratterizzato altre occasioni. Anche se a prima vista esse non rivelano appieno la loro essenza un esame più approfondito consente però di valutarne appieno tanto il carattere bellico quanto la potenziale pericolosità . Esaminiamole una per una , iniziando dalle due missioni di addestramento . L’una Bagdad , affidata ai Carabinieri per la preparazione della polizia locale , l’altra che schiera ad Erbil un po’ meno di 300 addestratori dell’Esercito impegnati a qualificare per il combattimento alcune migliaia di pesh merga curdi. Passi per i Carabinieri ma , considerato come i curdi si siano evidenziati sino ad ora come i più validi oppositori dell’ISIS , si può ben capire quali possano essere i sentimenti delle truppe del Califfo nei riguardi dell’altra missione addestrativa. Sempre all’Esercito , in particolare ai suoi elicotteristi, è affidata la missione di “Personal Recovery” , destinata a recuperare della coalizione rimasto isolato in situazioni di particolare rischio. Quanto ciò possa essere pericoloso ce lo precisa il ricordo della missione , con successo solo parziale , svolta dai russi in Siria per recuperare l’equipaggio del loro MIG abbattuto. Come a volte occorrerà anche combattere ce lo indica invece il tipo di mezzi scelti per accompagnare i 180 uomini della missione : quattro NH90 , blindati e pesantemente armati , scortati da quattro A129 Mangusta , veri e propri squali aerei da combattimento. E veniamo alla missione decisa più di recente , quella dei quattrocentocinquanta soldati inviati a proteggere la ditta Trevi durante i lavori per la riparazione della diga di Mosul . Anche questa e’ una missione che a prima vista può apparire umanitaria , diretta come essa appare a sventare il rischio di catastrofici crolli ed inondazioni . Ad ogni modo non si tratta certo di un intervento che l’ISIS , schierato a distanza relativamente breve , vedrà molto di buon occhio. Ne siamo talmente consci che il contingente parte dotato di carri armati Ariete e cannoni semoventi Panter , destinati a bloccare col loro fuoco l’avvicinamento dei camion bomba , magari blindati , che gli estremisti di questo teatro hanno dimostrato di saper utilizzare con mortale efficacia. Infine l’ultima delle missioni , la ricognizione aerea affidata ai quattro Tornado ed ai due Predator gestiti da 140 uomini del 6*stormo che operano da una base in Kuwait. Come e’ stato più volte ripetuto , in Parlamento e fuori , né gli aerei né i drone sono armati. C’è però da considerare come essi trasmettano in tempo reale i dati acquisiti ad altri mezzi della coalizione , cui regole di intervento ben diverse permettono una azione di fuoco immediata. In definitiva quindi , anche se ancora non stiamo combattendo e non abbiamo sparato un solo colpo in terra irachena, il complesso delle nostre missioni in quel paese si configura già come un intervento in un conflitto. A peggiorare le cose contribuisce poi anche il fatto che il totale dei soldati italiani impegnati ci identifica come i maggiori contributori di forze alla coalizione dopo gli Stati Uniti. Se poi andiamo a contare unicamente i “boots on the ground” , eliminando i militari schierati fuori dal territorio , dal secondo posto passiamo al primo , superando anche gli USA. Siamo quindi in una situazione particolarmente delicata , in cui tutto potrebbe succedere , anche se ovviamente speriamo che non succeda assolutamente nulla . Gli Stati Maggiori ed i Comandi impegnati ne sono ben consci , come dimostra la scelta dei mezzi assegnati ai contingenti , chiaramente ispirata alla sana logica militare del “what if everything goes wrong?”. Cioè all’idea di tenersi sempre pronti a fronteggiare la peggiore delle potenziali ipotesi. Sarebbe però tempo che anche le forze politiche e soprattutto l’opinione pubblica comprendessero appieno quale sia la realtà della situazione e quali potrebbero rivelarsi domani le sue implicazioni. Ciò ci consentirebbe, se non altro , di reagire in maniera ragionata ad eventuali eventi sgradevoli , minimizzandone in tal modo la portata e le conseguenze , anziché abbandonarci , come di solito avviene , a reazioni umorali ed istintive che di solito amplificano , anziché ridurla, la portata dei guai e degli errori.
Già pubblicato su Limes
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