L’illusione di poter pianificare lo sviluppo economico ripullula ad intervalli erratici nelle menti intrise di pulsioni autoritarie. Si fonde con l’aspettativa chimerica che la tecnologia fornisca alla nomenklatura i mezzi di controllo sulla società per realizzare gli obiettivi dettati dall’ideologia.
I sovietici si affidarono inizialmente a matrici input-output partorite da fantasie malate. In seguito, dopo i disastri dei piani quinquennali stalinisti, dalla metà degli anni 60, rivolsero il loro fideismo allucinato alla cibernetica (che a quei tempi rappresentava la frontiera tecnologica, come oggi l’la). Oggi, con sempre maggiore nitidezza risalta il parallelo tra l’Urss di Krusciov e Breznev e la Cina di Xi Jinping.
Il problema fondamentale – che prima debilita e poi annichilisce un’economia centralizzata – è l’allocazione distorta delle risorse tra produzione e consumo, come aveva intuito oltre 60 anni fa un eminente economista comunista, il polacco Michal Kalecki e persino Malenkov, che venne sconfitto da Krusciov nella successione a Stalin. I piani di sviluppo destinavano massicci investimenti all’industria e alle infrastrutture, ma i rendimenti si generano solo quando i beni o i servizi prodotti sono acquistati e consumati. Il valore aggiunto, e quindi il benessere, si calcola in base al prezzo di mercato finale non al costo dei fattori falsato dai burocrati.
Continuando ad investire per produrre principalmente beni mediocri e servizi inutili che la gente non vuole o non può permettersi, si distruggono risorse e si penalizzano le attività in cui il settore privato eccelle, volte a migliorare la qualità della vita e l’efficienza del sistema produttivo.
Si acquisivano minuziosamente le informazioni dalle fabbriche e dai kolkhoz nella convinzione che si potesse burocraticamente ottimizzare l’allocazione delle risorse, senza un sistema di prezzi che segnalasse la scarsità relativa. Il Partito Comunista Cinese, è in preda ad un’analoga ossessione: se la mania di controllo totalitario sulla società e sugli individui entra in rotta di collisione con l’efficienza, il dinamismo e la produttività, la tecnologia provvederà gli strumenti che allontanino il calice amaro delle riforme strutturali e istituzionali. Sono le stesse parole di Xi Jinping a sottolinearlo: «Una nazione prospera quando la sua scienza e la sua tecnologia prosperano, e un solido settore scientifico e tecnologico è la pietra angolare di una nazione forte», ha dichiarato il Segretario del Pcc in un discorso di giugno. «La modernizzazione cinese dipende dal progresso scientifico e tecnologico e lo sviluppo di alta qualità della nazione dipende dalla costruzione di un nuovo slancio di crescita attraverso l’innovazione nella scienza e nella tecnologia».
Ma la dinamica del mondo reale inevitabilmente cozza contro la rigidità di un’economia pianificata a tavolino sia pure da menti brillanti. Senza un mercato che shumpeterianamente corregga gli errori ri-orientando le risorse, il sistema economico deraglia nonostante i successi iniziali che illudono gli apprendisti demiurghi.
Infatti il decennale piano neo-maoista Made in China 2025 che dunque quest’anno giunge a compimento permette di valutare i risultati ottenuti a fronte dei costi che probabilmente superano il trilione di dollari. In quasi tutti i 10 settori chiave previsti dal piano, la Cina ha compiuto notevoli progressi, diventando leader mondiale nei veicoli elettrici, pannelli solari, batterie, robotica. Ma il rovescio della medaglia è piuttosto opaco. Invece di sviluppare il consumo privato come motore della crescita economica, gli squilibri economici tra produzione e consumo si sono esacerbati.
Non a caso Lou Jiwei, economista brillante, ex ministro delle Finanze, nel 2019 aveva definito il Made in China 2025 uno «spreco di denaro dei contribuenti».
I trilioni di dollari distribuiti in dieci anni hanno fatto lievitare la capacità produttiva oltre ogni ragionevole limite visto che la Cina rappresenta oggi il 34% della produzione manifatturiera mondiale, rispetto al 19% del 2010. Pertanto le aziende sono costrette ad esportare in dumping questa massa di beni che i cinesi non vogliono e il resto del mondo non intende assorbire. Infatti con il ritorno di Trump nello Studio Ovale partirà una feroce guerra commerciale dalle conseguenze devastanti per le fabbriche cinesi.
Tuttavia, al momento non si intravedono crepe nella determinazione di Xi ad ampliare questa ipertrofica capacità industriale. Un po’ come i sovietici che si intestardivano a produrre milioni di tonnellate d’acciaio, ma razionavano la carta igienica.
L’articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore