II nocciolo della questione può essere sintetizzato in due numeri: secondo i dati della Banca mondiale, nel 2022 il 30% dell’output manifatturiero mondiale originava dalla Cina, mentre i consumi privati cinesi rappresentavano solo il 13% di quelli globali.
Ciò implica che le aziende cinesi riversano sui mercati internazionali il 60% delle loro produzioni, spesso a prezzi di realizzo, destabilizzando l’economia mondiale. In un contesto normale per assorbire questo squilibrio il Paese dovrebbe stimolare i consumi interni o rivalutare il cambio. Ma il Partito Comunista Cinese da oltre venti anni rifiuta di applicare queste misure, di espandere i servizi pubblici (specialmente la sanità) e estendere la sicurezza sociale per i cittadini. Un Paese che ha costruito 45mila chilometri di linee ferroviarie ad alta velocità spendendo l’equivalente di 750 miliardi di euro e che impegna cifre colossali per il riarmo, mantiene ospedali pubblici di infimo livello.
Sono state formulate ipotesi più o meno fantasiose, per spiegare questo rifiuto: la mistica confuciana, (in salsa neo-maoista) di vita parca ed austera; il bias ideologico contro un’economia orientata ai consumi che sfugge al controllo statale; la preoccupazione che un welfare generoso inoculi il virus dell’indolenza nelle nuove generazioni.
Tuttavia la motivazione più plausibile è inquietante e gravida di conseguenze. Innanzitutto occorre rottamare l’idea che il regime cinese persegua la prosperità e il benessere della popolazione.
L’accumulo di capacità produttiva, lo spionaggio industriale, ‘appropriazione indebita di proprietà intellettuale, il dumping compongono una precisa strategia predatoria, una forma di guerra ibrida contro il resto del mondo. Il fine ultimo è riassurgere al ruolo egemonico di stampo imperiale che secondo Xi Jinping fu usurpato alla Cina durate il secolo delle umiliazioni. Del resto il Partito Comunista non fa mistero che l’obiettivo primario è l’ampliamento del potere su scala globale. Infatti sin dal 2015 con il programma Made in China 2025, il governo ha formulato un piano ambizioso, che punta alla primazia economica mondiale entro il 2049, sfruttando le economie di scala e il legame simbiotico tra apparato industriale e militare.
Quindi le scelte di politica economica a Pechino puntano esplicitamente alla conquista dei settori più avanzati o strategici utilizzando sussidi, prestiti agevolati, restrizioni alle importazioni, manipolazioni valutarie e pratiche illegali. Il regime comunista sostiene col bilancio pubblico i costi esorbitanti della sovra capacità e tollera le inefficienze pur di far terra bruciata sui mercati esteri, prima che scatti la reazione dei Paesi sotto attacco. Anzi prima che si accorgano di essere sotto attacco. Se i dazi vengono introdotti quando l’industria domestica è debilitata o spazzata via, riattivare il potenziale industriale richiede anni di sforzi.
E la strategia perseguita per i pannelli solari, gli elettrodomestici, le turbine eoliche, gli antibiotici eccetera. Troppi Paesi presi alla sprovvista hanno imposto tardivamente dazi per tamponare l’aggressione. Si tratta di reazioni tormentate anche politicamente e diplomaticamente, per i tanti interessi in gioco col gigante asiatico, basti pensare alle divisioni interne alla Unione europea.
Peraltro, questa accumulazione di sovra-capacità rischia di tradursi in un tonfo. Gli effetti sono già percepibili nei conti aziendali. Secondo un’indagine campionaria dell’istituto di statistica cinese, nella prima metà del 2024 il numero delle aziende industriali con il bilancio in rosso è aumentato del 44% raggiungendo il 30% del totale. Paradossalmente è proprio il settore dei veicoli elettrici a registrare flop inattesi. Hengchi l’azienda di veicoli elettrici (Ev) di Evergrande (il colosso immobiliare in bancarotta) è fallita dopo aver venduto 1389 veicoli nel 2023 contro il target di un milione. Si è aggiunta alla lista di 8 altri fabbricanti di Ev che nel 2023 hanno gettato la spugna, trascinando con sé pezzi pregiati dell’indotto, tra cui Levdeo e Anji Logistics. Secondo Qichacha citata dall’«Economist», l’anno scorso sono sparite 52mila aziende legate ai veicoli elettrici. Un quadro analogo si sta delineando nel settore dei pannelli solari dove si registrano prezzi in picchiata e uno ancora più grave in quello dei microchip di fascia bassa, dove 11mila imprese hanno chiuso i battenti nel 2023. Per i Paesi che hanno subito l’offensiva cinese potrebbe essere arrivato il momento di un colpo di reni.
Il nuovo articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore