Le idee chiare. Il percorso personale di ognuno di noi, tra sogni e realtà.

Ecco in sintesi la lunga lettera che mi ha scritto un ventinovenne romano di origini meridionali, che chiamerò Joe. È un nome di fantasia che si ispira al celeberrimo friulano-newyorkese Bastianich e che come lui appartiene a una famiglia di ristoratori. Con il padre del nostro Joe che è partito come cameriere riuscendo poi ad aprire, a Roma, a metà degli anni Ottanta, un ristorante di proprietà. Passando negli anni da 30 a 220 coperti, comprando buona parte dei muri del locale e, parallelamente, grazie al profitto generato dal duro lavoro, a costruire una villetta tri-familiare con annessi appartamenti messi a reddito; per una storia di successo famigliare, condita da tanto sacrificio e da una cultura del lavoro ormai rara e da tempi diversi da quegli attuali, meno adatti alla realizzazione del “sogno americano” in salsa tricolore.
Soprattutto, è la storia della classica famiglia – in questo caso di ristoratori – che vive in simbiosi con il suo business. “Natale, Capodanno, Pasqua, compleanni, non sono mai esistiti, il ristorante ha sempre vinto su tutto, anche sui lutti in famiglia” spiega Joe, che dall’età di 12 anni ha sempre servito ai tavoli d’estate e nei fine settimana. E con il padre che lo ha fatto crescere con un’idea ben precisa: “Tu non devi fare la vita che faccio io”. Perché, spiega il figlio, “comunque mio padre, il ristorante lo ha sempre visto come una punizione, come l’unica cosa che ragazzi meridionali senza una vera istruzione potevano fare”. Così, da un lato, i tanti clienti in giacca e cravatta – avvocati, commercialisti, notai, eccetera – erano visti dal padre con un’aurea d’importanza esagerata, mentre, dall’altro lato, Joe è cresciuto nel sacro rispetto verso lo studio, perché un giorno gli avrebbe dato prima un’istruzione, poi un lavoro “non punitivo” da completo grigio e Marinella al collo.
Joe, senza le idee chiare del padre – da cameriere a ristoratore a tutti i costi – e con la passione per le lingue e una vaga idea di andare via dall’Italia e magari di intraprendere una carriera diplomatica, si è laureato come interprete e traduttore, ha conseguito un master in relazioni internazionali in una università americana, poi ha fatto un tirocinio alle Nazioni Unite (precisamente all’HQ del World Food Programme, proprio a Roma, nella sua città, comodo e senza troppe spese). Dopo sono seguite altre esperienze, a spot, pagate e non pagate, che in definitiva non lo hanno portato da nessuna parte – “Non sono stato fortunato, non sono stato bravo io a cogliere le opportunità e non ho avuto molto supporto da parte dei miei” dice Joe – e anzi, che lo hanno riportato a servire ai tavoli del ristorante di famiglia.
In seguito, sempre attraverso le risorse paterne, a Roma ha aperto un B&B in zona centralissima. Un po’ grazie alle 4 lingue che conosce e un po’ perché la sua disponibilità è totale (tranne la giornata del sabato quando continua a dare una mano al ristorante), il mestiere di affittacamere ha successo.
Insomma, pare che Joe, dopo qualche tentativo, abbia trovato la sua strada…
Invece no. “In ogni caso non ero felice” dice lui.
Perché?
“Dentro di me sapevo che non era ciò che volevo, lo facevo perché dovevo farlo. Io sono sempre stato più ambizioso, io volevo di più. Ma qui non è possibile. In Italia, oggi come oggi, non credo che se cominci bene diventi più grande. Nessuno capiva la mia ambizione, il mio voler guadagnare sul serio per avere una vita migliore. Ho cominciato a capire che io non lo volevo fare quel lavoro ma lo facevo perché l’attività era la mia e perché c’erano dentro anche i soldi di mio padre”.
Qui Joe arriva al sottoscritto. “Avrei voluto leggere i suoi libri 10 anni fa, forse sarei partito il giorno dopo, o forse, come ho fatto, avrei avuto troppo rispetto per i miei e per ciò che mi hanno dato e sarei rimasto qui a fare il cameriere, a studiare e a crearmi una mentalità internazionale che poi qui non serve a nulla. Il solito italiano frustrato. Ma ora li capisco tutti, mio padre incluso. Lavorare, lavorare e lavorare e poi ogni mese pagare, pagare e pagare… Arrivo al punto più importante. Ho 29 anni e al contrario di tutti gli altri mi reputo vecchio. Vecchio perché io vedo cosa fanno i cinesi a 29 anni, quanti soldi hanno e con che capacità crescono. Vecchio perché non sono sposato e non ho una casa di proprietà comprata con i miei soldi. Ho una laurea, un master in un’università americana conseguito a 25 anni, ho la mia attività di successo ma per me tutto questo è nulla. Perché io non guardo a chi fa meno di me, guardo a chi riesce a far di più semplicemente perché si trova in un altro luogo. Non voglio lavorare per sopravvivere ma per fare soldi.  Ho anche sempre sognato di avere un lavoro dignitoso. Fare il cameriere, con la gente che ti tratta come uno schiavo una vita intera, lo è? Non poter mai portare tuo figlio al parco o poter assistere a una recita o partita di tennis lo è? Non poter prendere impegni perché nel mio lavoro non esistono orari e quindi devi essere sempre disponibile o perché la gente ti chiama alle 4 di mattina perché ha lasciato la tessera di accesso al pub? Dover investire 200mila euro per guadagnarne il 15-20% con responsabilità penali, con tasse continue, con costi di gestione assurdi, senza mai una mezza giornata libera, con i dipendenti che ti dicono io da domani non vengo più perché gli va cosi e alla fine hanno sempre ragione loro, questa è dignità? Essere il capo e quindi essere odiato perché a loro avviso tu guadagni di più ma loro non sanno che tu molto spesso non guadagni proprio niente perché il loro stipendio e i loro contributi e le tasse sono la priorità, questa è dignità?”
E dopo tutte queste domande, Joe risponde così a me e a se stesso. “No, questa è l’Italia. Ogni lavoro ha le sue parti dure e difficili ma io vedo molta più dignità nel lavorare 15 ore come fanno a Hong Kong però poi quando hai chiuso hai chiuso ma soprattutto lavorando sodo, guadagni bene. Sì, pagherai un sacco di dollari di affitto ma il sacrificio ti porterà delle promozioni. Qui lasciamo perdere. Per me la dignità sarebbe stato poter lavorare in una ONG oppure presso le agenzie dell’ONU sparse nel mondo o anche per una compagnia privata. Io sogno un lavoro dove ci sono dei progetti e degli obiettivi e dove lavorare duro ti porta a promozioni e ad aumenti di stipendio. Ho perso la fiducia nell’attività imprenditoriale, ma non so se è solo perché in Italia è così o se lo è dappertutto”.
E termina la sua lettera ipotizzando un futuro a Hong Kong, dove si trova “benissimo, il mondo va veloce e la mentalità e la cultura del lavoro è ottima”. E a me dice: “Capisce che io a fare il cameriere o l’albergatore non ce la faccio più? Non voglio più lavorare con la gente ma per la gente”.
A Hong Kong a fare cosa? Si risponde da solo: “Io credo che a HK manchi la vera pizza al taglio… Con un grande panificatore e con un grande business plan, a mio avviso si può fare. Io non ho in mente la solita piccola pizzeria al taglio col pizzaiolo semi italiano. Io le cose o le posso fare in grande o non le faccio proprio. Secondo me si potrebbe aprire più posti su HK, a seguire Singapore, per poi andare con la Malesia, Vietnam, Filippine…”
Caro Joe, okay, innanzitutto mantieni l’umiltà, perché finora hai fatto qualcosa solo grazie ai soldi di papà, quindi evita di dire frasi perlomeno pretenziose (“Io le cose o le posso fare in grande o non le faccio proprio”); poi, concretamente, se hai ancora voglia di studiare, fai la scuola di “hospitality” di Cornell, che è la numero uno, da lì entri nel grande giro, gli italiani sono sempre al top in questo settore (ovunque nel mondo in forte crescita seppure in forme diverse). Hong Kong può funzionare ma devi ripartire da cameriere e capire come funziona il giro, altrimenti ti fottono subito. E va bene lasciare l’Italia, che non aiuta i suoi imprenditori – e certo non farei impresa da noi nel food perché è l’unico settore dove la competizione è spietata e di livello top nel mondo – ma detto ciò, credo che tu debba fare un passo indietro e capire una volta per tutte cosa vuoi fare da grande. Il mestiere di tuo padre no (“Capisce che io a fare il cameriere o l’albergatore non ce la faccio più?”) e la pizzeria al taglio sì perché la faresti dall’altra parte del mondo? Pensando lì di avere molte “mezze giornate libere”?
O ti stancheresti anche di questo, perché tu sei “più ambizioso” e vuoi “di più” e magari il tuo desiderio più grande, come hai scritto, sarebbe stato quello di “poter lavorare in una ONG oppure presso le agenzie dell’ONU sparse nel mondo o anche per una compagnia privata”.
Caro Joe, il mio consiglio è questo: riparti da tuo padre. Non necessariamente dal suo mestiere, ma dal suo esempio. Dalle sue idee chiare e dalla sua volontà di realizzarle, che lo hanno portato a diventare da cameriere a ristoratore di successo. Riparti da quello che è il tuo sogno. Cerca prima quello, poi realizzalo.
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