L’Asia è degli asiatici, per le PMI investire è sempre più difficile

L’intervista ad Alberto Forchielli. Parla l’imprenditore partner fondatore di Mindful Capital Partners: «Scenario cambiato. Oggi serve una competenza sempre più elevata». In Italia «punto su Pmi a vocazione internazionale»

Dobbiamo dire la verità, per un europeo andare a lavorare in Asia non ha più senso. Perché la Cina ormai è dei cinesi, che sono bravissimi. L’India degli indiani, che sono bravissimi. Pure i coreani sono bravissimi, come anche i giapponesi. Insomma, l’Asia ormai è degli asiatici. Oggi le opportunità di poter emigrare o lavorare in quei paesi per i ragazzi occidentali sono molto limitate. Lo dico a tutti quelli che vengono da me per dirmi che vogliono andare a fare un master a Singapore o ad Hong Kong». Per Alberto Forchielli, bolognese di 68 anni, dopo trentun anni all’estero, di cui molti in Oriente, è arrivato il momento di cambiare. Una laurea all’Alma Mater, poi Harvard, prima di girare il mondo e dedicarsi al private equity.

Come mai questa decisione per certi versi sorprendente di rientrare in Italia? E dove vivrà?
Andrò a vivere in campagna, a casa mia. Sulle colline sopra Imola. Ma ho anche comprato un appartamento a Milano perché ho avuto un insegnamento all’università Cattolica, dove ho un corso tutto mio. Un corso di economia aziendale sull’Asia al Master di International Business. E questa è una cosa mi rende molto felice. Per il resto continuo a seguire il mio fondo, il Mindful Capital Partner.

Niente Singapore, niente Shanghai. Quindi i giovani italiani dove devono guardare?
L’unico modo per un occidentale di scavarsi una nicchia in quei paesi è avere una competenza molto, molto specifica e ristretta su un argomento specifico, che sia superiore a quella degli altri. Però è molto raro averla. Soprattutto nelle materie economiche, credo che ormai non ci sia più differenza. Anche investire in quei paesi è molto difficile, perché ormai trovi investitori coreani, indiani, giapponesi, cinesi, di ogni tipo. Anche i taiwanesi molto attivi.

Dopo la Pandemia c’è stata una inversione di tendenza anche rispetto agli stranieri.
In Cina sono diminuiti del 65 per cento. Molti, scappati durante il Covid, non sono più tornati. Inserirsi nelle professioni è molto difficile perché bisogna conoscere l’indi, il cinese; bisogna avere dei rapporti. Sono paesi molto relazionali, quindi non è facile inserirsi professionalmente, anche se uno studia. Per quanto uno possa studiare troverà sempre 1000 cinesi e 500 indiani davanti a lui.

C’è stato un cambiamento in positivo rispetto alla qualità della loro manifattura.
Hanno i capitali da investire, così hanno investito moltissimo e sono cresciuti qualitativamente. Ormai i cinesi, i coreani, i taiwanesi realizzano prodotti molto competitivi. Poi, mentre una volta esisteva una specie di complesso d’inferiorità verso il prodotto occidentale, le nuove generazioni sono sempre meno sensibili a questo, perché sono abituati a vedere un grande Giappone, una grande Corea ecc.., ragione per cui sono sempre meno disposti a comprare i prodotti importati dall’occidente.

Se molti di questi paesi hanno avuto una evoluzione verso sistemi democratici, non così è per la Cina.
La Cina ha seguito la stessa dinamica economica di Corea, Giappone e Taiwan. Ossia un modello centrato sugli investimenti stranieri e sulle esportazioni, ma anziché aprirsi si è chiuso. E adesso soffre di questa chiusura perché non ci sono incentivi per i consumi. Con altissimi investimenti, hanno deciso di orientarsi esclusivamente verso le esportazioni. Da qui i problemi che stanno nascendo in questi anni.

L’impressione è il controllo sociale in Cina sia elevatissimo.
Il sistema politico sta in piedi grazie a un’enorme repressione. Per questo spende tanto quanto spende nella difesa, una cosa enorme. La repressione è fatta di tecnologia, con largo uso di intelligenza artificiale.

Secondo lei quale sarà la terra promessa nei prossimi 30 anni?
Rimane sicuramente l’Asia. In primo luogo, perché sono tanti, perché non sono ancora in calo demografico, perché hanno voglia di lavorare, non hanno vincoli religiosi né sindacali. Insomma, vanno troppo forte.

L’Italia invece come l’ha ritrovata?
Qui è sempre tutto abbastanza uguale, con gli stessi problemi da quaranta anni a questa parte: aziende troppo piccole, burocrazia che non funziona, eccesso di indebitamento, poca scolarizzazione. Purtroppo, l’Italia è quella che è, però rimane il mio paese è qui dove penso di passare i prossimi anni.

Anche il suo fondo di private equity ha cambiato orizzonte.
Quando siamo partiti facevamo da ponte tra Europa e Cina. Poi dopo, piano piano, è sempre diventato più difficile operare in Cina per cui abbiamo cambiato il nome da Mandarin Capital Partner a Mindful Capital Partner.

E quindi su cosa si orienta in Italia?
Sulla cosa più preziosa che ha questo paese, ovvero le Piccole e medie imprese che hanno aspirazioni internazionali.

L’intervista di Luca Benecchi pubblicata su Il Sole 24 Ore, 13 Maggio 2024

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