Condivido la riflessione di Patrick J. Buchanan sul “triangolo” Afghanistan, USA, Cina. Partendo dallo storico refrain di Dean Rusk, segretario di Stato USA ai tempi della guerra in Vietnam, “We are there and we are committed”. Frase che rappresentava una filosofia ben precisa da trasmettere al popolo americano e al pianeta intero: a prescindere da quello che tu possa pensare sulla decisione di combattere in Vietnam, adesso ci siamo e andare via significherebbe perdere la prima guerra nella storia degli Stati Uniti d’America, incrinando la posizione statunitense nel Sud-Est asiatico e nel mondo. Sappiamo poi come è andata a finire… però quello che conta oggi è che gli USA sono di fronte allo stesso dilemma di allora.
Il 31 maggio scorso l’esplosione di un camion-bomba nella piazza Zanbaq di Kabul, nel centrale distretto diplomatico di Wazir Akbar Khan, ha ucciso 90 persone, ferendone quasi 500. L’attentato è stato attribuito alla Rete Haqqani, il gruppo di insurrezionalisti islamici attivo qui e in Pakistan e molto vicino ai talebani. Per un messaggio evidente da parte dei terroristi: siamo in grado di colpirvi ovunque, anche nel cuore della capitale. Tutto ciò dopo che gli USA, nella guerra in Afghanistan, hanno investito centinaia di miliardi di dollari e più di 2mila militari uccisi dall’11 settembre 2001.
L’Afghanistan, secondo Obama, rappresentava la guerra “giusta” – mentre l’Iraq era quella “sbagliata” – così, nel 2011, potenziò il contingente fino a 100mila militari con l’obiettivo di sconfiggere i talebani, addestrare l’esercito locale e le forze di sicurezza nazionali, stabilizzare il governo e ritirare il contingente entro la fine del suo secondo mandato. Obama ha lasciato il posto a Trump e ora le truppe USA in Afghanistan sono scese a 8.500 unità. Kabul, come testimoniato dall’attentato di fine maggio, è fuori controllo e i talebani contano su più territori che nel 2001. Per una guerra che, in sintesi, si può dire perduta.
L’attuale amministrazione USA non ha né la volontà né tanto meno la forza dell’appoggio dell’opinione pubblica per portarvi altre forze armate, intanto però, il generale John Nicholson, capo del contingente a Kabul, ha chiesto almeno 3mila nuove risorse per addestrare l’esercito afghano e stabilizzare il Paese nell’attesa di riuscire a negoziare un’uscita di scena almeno dignitosa. Ed è ovvio che se non sono bastati 100mila soldati americani per sconfiggere i talebani nel 2011, è del tutto inutile pensare di riuscirci adesso con un settimo delle risorse. D’altro canto Trump non potrà rifiutarsi di mandare altri rinforzi perché la sconfitta contro i talebani – aiutati a vario titolo da Russia e Iran – causerebbe un danno d’immagine – e non solo – su tutta la linea.
Per un quadro che davvero rinfresca le figure di merda colossali degli USA in Vietnam e Cambogia di metà anni Settanta e l’umiliazione dell’Unione Sovietica negli anni Ottanta, non casualmente sempre in Afghanistan.
Imparando, una volta per tutte, cosa? Che il tentativo, di chiaro stampo americano, di “ricostruire” i Paesi culturalmente e storicamente diversissimi dalla società occidentale – come Afghanistan, Iraq, Libia, eccetera – a nostra immagine e somiglianza, è una folle utopia destinata, sempre e dolorosamente, a fallire. E la lenta uscita di scena degli USA – e del suo modello “americaneggiante” – dal Medio Oriente, prefigura la sempre maggiore penetrazione della Cina, molto attenta a immischiarsi solo in questioni di business, senza nessun principio morale che vada a ostacolare la sua posizione di leader mondiale in divenire.
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FORCHIELLI DELLA SERA
L’Afghanistan come il Vietnam. Per la fine del modello di americanizzazione del mondo.
Alberto Forchielli31 Agosto 20170
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