La mutazione degli ecosistemi nelle grandi città del mondo (seconda parte). Tra fermento e sterilità, tra miliardari, startupper e poveri, affinché le capitali mondiali includano e non escludano.

Riprendiamo dalle riflessioni di martedì scorso sul saggio di Richard Florida, intitolato The New Urban Crisis (How Our Cities Are Increasing Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class-and What We Can Do About It), in merito allo spazio urbano delle grandi capitali mondiali e al suo ecosistema in continuo movimento. Come detto, insieme all’incursione plutocratica dei miliardari che stanno trasformando molte delle grandi città del mondo, vi è anche un numero sempre più elevato di startupper e capitani d’impresa che, parallelamente, nelle stesse città, stanno creando fermento nei sobborghi, probabilmente dando vita alle SoHo di domani.
I fenomeni storicizzati lo confermano. Basti pensare alle principali aziende ad alta tecnologia degli anni ’70, ’80, ’90 e persino dei primi anni 2000, come Intel, Apple e Google. Tutte erano dislocate nei campus della Silicon Valley; la sede di Microsoft era nel sobborgo di Redmond; altre compagnie high-tech erano raggruppate lungo la Route 128, fuori dalla mia amata Boston, nei sobborghi di Austin o nella Carolina del Nord. Oggi quella geografia è cambiata notevolmente perché le startup innovative e le società di venture capital si sono urbanizzate, con San Francisco che supera la Silicon Valley come numero di startup finanziate da venture capital. E altissima è anche la concentrazione a Lower Manhattan, a New York City. Questo perché le aree urbane offrono chiari vantaggi, come la diversità intellettuale, l’energia creativa, la ricchezza e la vivacità culturale, compreso una logistica fatta di fabbricati industriali e magazzini con spazi di lavoro flessibili e riconfigurabili. Mentre i colossi – Microsoft, Apple e Facebook per citarne alcuni – necessitano di fabbricati enormi e quindi devono restare nelle periferie, le startup che alimentano l’innovazione trovano il loro habitat perfetto nelle grandi città. Si pensi ai settori di media digitali, social media, giochi e app creative. Che proprio nelle aree urbane più creative trovano team di designer, compositori, sceneggiatori, musicisti e copywriter.
Questo fenomeno ha sicuramente alzato i prezzi del metro quadro in città come San Francisco, New York, Boston e Seattle. Tuttavia, per l’autore di The New Urban Crisis, le connessioni tra disuguaglianza economica e crescita della tecnologia urbana sono difficili da verificare perché la presenza di startup e di venture capital porta parallelamente aumento del costo della vita ma anche innovazione, crescita economica e posti di lavoro per tutta la filiera.
Sta di fatto che la concentrazione di industrie creative e relativi posti di lavoro in città come New York e Los Angeles resta primaria. La concentrazione artistico-creativa a Los Angeles è tre volte superiore alla media USA (e quattro volte superiore alla media nazionale quella di artisti, pittori e scultori), mentre quella a New York è doppia. Musicisti e cantanti a New York rappresentano tre volte la media nazionale. Due volte quella di Los Angeles. Ed entrambe le metropoli hanno più di tre volte la media nazionale per scrittori e autori. Addirittura la concentrazione di stilisti di New York è dieci volte superiore alla media nazionale, mentre quella di LA è quasi otto volte superiore.
Ma, fuori dai numeri e dai paradossi della ultra-ricchezza, Richard Florida si pone una domanda dalla risposta scontata. Qualcuno vuole veramente scambiare le odierne economie di New York o Los Angeles con la loro situazione economica negli anni Settanta o Ottanta? La risposta, appunto, è ovvia. L’alta tecnologia unità alle forze tradizionali di queste città, come la creatività artistica, ha reso indubbiamente più forti le loro economie. Resta però un enorme problema. Il divario sempre più ampio tra vincenti a vario titoli e poveri e normale forza lavoro, sempre più spostati ai margini. E il modo per aiutarli non è quello di osteggiare la creazione di ricchezza, ma di rendere più ampie e inclusive le economie fiorenti dei grandi ecosistemi urbani.
 
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