«Trump vuole un mondo diviso in due: o stai con l’Occidente o stai con l’Oriente. La soluzione? Muoversi e correre in America». Anticonformista, schietto e senza peli sulla lingua, come da par suo,l’economista Alberto Forchielli offre una chiave di lettura in prospettiva sulla guerra commerciale che il presidente degli Stati Uniti ha innescato con la sua politica di dazi, iniziata imponendo le “tariffe” sull’acciaio e sull’alluminio. Una politica che Forchielli, investitore alla guida del fondo Mandarin Capital Partners e grande conoscitore in particolare del mercato cinese, definisce «brutale».
Come mai?
La brutalità di Trump è nel creare incertezza. Incertezza sul futuro, sulle normative, i dazi, le regole, per costringere tutte le grandi compagnie che dagli Usa hanno imboccato la strada dell’esodo a tornare in patria. Non solo, perché oggi non esiste impresa multinazionale non americana che non stia contemplando di aumentare gli investimenti negli Usa, per crearsi un paracadute una volta che ci saranno i dazi. Un’offensiva che promette di essere durissima, perché ormai l’America si considera in guerra: il sostegno a Trump sul commercio è bipartisan, Trump viene costantemente superato a destra da membri del Congresso.
A cosa mira il presidente Usa con questa sua strategia?
Con l’accesso al Wto, l’Organizzazione mondiale del Commercio, che rese permanente lo status di “most-favorite nation” fino ad allora concesso annualmente, c’è stata un’ondata di investimenti verso la Cina che ha svuotato l’hinterland americano di industrie. Ora Trump sta smontando il Wto con una strategia mirata a creare incertezza scompaginando totalmente il flusso degli investimenti globali cross-border. Un’offensiva tale da far impazzire le aziende, costrette a prendere una componente in Cina, una in Messico. È tutto scientificamente mirato a provocare una deflagrazione della supply chain globale.
Cosa succederà?
Si creeranno due supply chain, due catene di approvvigionamento per la grande industria, globali. E a quel punto l’Europa dovrà scegliere se stare a destra o stare a sinistra. Se vuoi vendere in Occidente devi comprare i pezzi in Occidente, se vuoi vendere in Oriente dovrai approvvigionarti in Oriente.
L’Europa è proprio in mezzo, non sembra un bel quadro…
Il dramma vero è che di quei 150 miliardi di euro di surplus commerciale dell’Europa nei confronti dell’America, più di un terzo (65 miliardi) sono della Germania, un quinto (30 miliardi) sono dell’Italia, e il resto se lo dividono gli altri venti e rotti Paesi dell’Unione europea. Ma gli Stati Uniti in realtà ce l’hanno solo con la Germania, sia perché ritengono che l’euro senza la Germania renderebbe il marco più forte, sia perché la Germania è uscita dalla crisi esportando in America e facendo pareggio di bilancio, mentre avrebbe potuto puntare sulla domanda interna con una politica espansiva e con qualche investimento in più. L’obiettivo è la Germania, Paese mercantilista da punire, e in questo scenario l’Italia è il classico vaso di coccio.
Non c’è possibilità di retromarcia sui dazi, dunque?
Il prossimo passo di Trump saranno i dazi sull’auto, che per definizione è l’export tedesco. Ma che sarà una mazzata bestiale per l’Italia, se consideriamo che di quei 30 miliardi di surplus commerciale almeno cinque sono di Fiat-Fca, che produce le auto a Melfi e le esporta negli Stati Uniti. O trovano il sistema per derogare Fca, ma ne dubito, oppure per noi sarà una botta del ‘32, pur senza avere alcuna colpa. Una minaccia terrificante dal punto di vista commerciale.
Un vaso di coccio in mezzo ad una guerra globale, insomma?
Si, proprio un terribile vaso di coccio, anche se l’America ci vuole bene e vorrebbe non prenderci in mezzo. Teniamo comunque conto che chi ha più del 60% di esportazioni non avrà nessun problema. Nel nostro ambiente si dice che “più un Paese è fottuto, più le imprese esportatrici vanno bene”.
Ma in questo scenario le imprese italiane cosa dovrebbero fare? Che consiglio si sente di dare?
Correre in America e investire in America. L’Asia ormai per le imprese italiane è chiusa: chi è entrato cerca di rimanerci, chi ha provato ad entrare ma è rimasto fregato non ci torna più e per chi non c’è ancora ormai è troppo tardi, perché ormai non si entra più. E siccome nel futuro ci saranno due supply chain distinte, una in Occidente e l’altra in Oriente, non resta che correre come dei matti e insediarsi in America.
I “piccoli” però come fanno, per un artigiano è impensabile l’opzione di produrre all’estero: devono fare rete?
Non la faccia dire a me questa cosa delle piccole imprese che devono mettersi insieme, perché sono laureato da quarant’anni e questa litania la sento da allora. Ad un piccolo imprenditore dico “vendi, compra, corri”, ma di fare squadra no. Purtroppo oggi piccolo non è più bello: le piccole imprese sono penalizzate su tutto e questa vicenda è solo un altro chiodo nella bara. Muoversi è l’unica cosa da fare.
Proprio come nel titolo del libro che Forchielli ha dedicato ai giovani, invitandoli a «fare la rivoluzione in un Paese di vecchi».
Intervista ad Alberto Forchielli, pubblicata sul sito di Confartigianato Imprese Varese, 5 agosto 2018
PRESS
La grande incertezza degli Usa di Trump: le mosse giuste per vincere la guerra dei dazi
Alberto Forchielli6 Agosto 20180
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