Intervista ad Alberto Forchielli del Fondo Mandarin alla vigilia dell’incontro fra Xi Jinping e Trump. “I cinesi amano e temono The Donald. Lo comprerebbero. Ma l’abbraccio con l’America è fallito”
Trump lo ha definito “il re della Cina”. Xi Jinping, rieletto da pochi giorni alla carica di segretario generale del PCC, è emerso dal Congresso come un leader più forte. L’8 novembre andrà in scena il secondo incontro tra i due presidenti dopo il summit di Mar-a-Lago, in Florida, dell’aprile scorso. Di cosa parleranno?
Dominano l’agenda la gestione della crisi coreana e gli squilibri commerciali. “Sarà un viaggio storico” ha detto il ministero degli Esteri cinese. Dalla Casa Bianca assicurano che il presidente farà un uso moderato di Twitter durante il lungo viaggio in Asia. Pechino è la terza tappa del tour che in dodici giorni porterà Trump in cinque Paesi: Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine. ‘The Donald’ deve riconquistare la fiducia dei partner asiatici nella regione che la diplomazia statunitense ha di recente iniziato a chiamare “Indo-Pacifico” e non più “Asia-Pacifico”, a sottolineare il peso maggiore dell’India per l’attuale amministrazione.
La dottrina “America First” ha generato scetticismo tra i vicini asiatici rispetto ai piani della potenza americana laggiù, soprattutto dopo la decisione di abbandonare la Trans-Pacificic Partnership (Tpp), cui è seguito il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima. A un anno dalla vittoria alle presidenziali, è comparso in più occasioni lo slogan “America Alone”: uno spettro che oggi Trump deve allontanare. Da qui probabilmente la decisione di estendere di un giorno la permanenza nelle Filippine per partecipare all’East Asia Summit (Asean), incerta fino a pochi giorni fa. Xi Jinping, al vertice di una potenza sempre più presente e assertiva sulla scena internazionale, potrebbe cogliere l’opportunità di colmare i vuoti lasciati dall’isolazionismo di Trump. Evitando un approccio egemonico – sottolinea la retorica ufficiale – e puntando sulla cooperazione.
Ma non tutti sono d’accordo. “Non esiste win win con i cinesi”, dice Alberto Forchielli, managing partner del Fondo Mandarin, raggiunto al telefono a Boston. Il “re” che Trump sta incontrare a Pechino piace molto poco all’imprenditore bolognese, a capo del primo fondo di private equity ad aver ottenuto capitale in gestione dal governo cinese. “La Cina di Xi è entrata in una fase di sub-rivoluzione culturale, ovvero interna al partito, che non si manifesta all’esterno”. Per ora. Siamo di fronte a un inquietante “ritorno del culto della personalità”, dice Forchielli. “Xi ha accentrato su di sé un potere senza termini – continua –. Sta ritornando tutto quello che Deng Xiaoping aveva drammaticamente cercato di distruggere alla luce dei disastri dell’era maoista. Xi è un uomo solo al comando, senza avversari politici, il suo pensiero è entrato nello statuto del PCC, i suoi insegnamenti sono entrati nelle scuole. Il nuovo Politburo? Se lo è fatto su misura: nessuno dei membri del Comitato Permanente ha l’età per diventare il suo erede tra cinque anni”.
La Cina vuol tornare al centro del mondo?
La Cina “non chiuderà le porte al mondo”, ha detto Xi nel discorso di apertura al Congresso il 18 ottobre scorso. Un concetto che aveva già espresso al World Economic Forum di Davos, pochi giorni prima che Trump venisse nominato quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, quando definì il protezionismo “una stanza buia” durante un discorso a difesa della globalizzazione. “I cinesi hanno gettato la maschera”, spiega Forchielli. “Vogliono diventare una potenza imperiale”. L’obiettivo del Partito, che ha incoronato i nuovi sette potenti leader cinesi consacrando il potere di Xi Jinping, è di realizzare il grande sogno di rinascimento della nazione: “Quel sogno di rinascita che i cinesi hanno sempre coltivato”, continua Forchielli. “Per Pechino è giunta l’ora di riproporre il modello della Cina al centro del mondo che ha prevalso per millenni fino alle Guerre dell’Oppio”.
Non si è trattato di un cambiamento di rotta improvviso, c’erano da tempo segnali latenti
“Xi ha adottato una serie di mosse che lo hanno portato a rafforzare il proprio potere: ha alimentato il sentimento nazionalista diffuso nel Paese, ha ripulito il partito da una corruzione endemica, ha stretto le maglie su quei comportamenti particolarmente corrosivi dal punto di vista cinese che stavano distruggendo il partito e la società”. Questo modello, riproposto in chiave positiva da Xi, esercita un grande appeal sui cinesi. “La Cina è convinta di meritare il ritorno a un ruolo di grandezza, anche alla luce della decadenza del Giappone, degli Usa e dell’Europa”. Xi, che promuove un maggiore ruolo internazionale della Cina a partire dell’iniziativa di sviluppo infrastrutturale euro-asiatico Belt and Road (progetto da oltre 900 miliardi di dollari), promette una “comunità dal destino condiviso”, uno slogan che riassume la visione del mondo in cui la Cina coinvolge i Paesi interessanti non solo a beneficio degli interessi nazionali.
Il mondo può stare tranquillo?
“Non esiste win win con i cinesi”, scandisce Forchielli. “Il carattere sinocentrico del modello cinese non porta nessun beneficio ad altri Paesi”. Ma sostiene i suoi rischi: “Diventare una potenza imperiale non ha solo benefici ma costi. Dal Venezuela all’Ecuador, dall’Africa al Sud Est Asiatico, i cinesi hanno investito senza un vero ritorno. Ma si tratta in ogni caso di investimenti più ragionati di quelli americani, che fanno guerre in Afghanistan e in Iraq finendo col dare un vantaggio gli avversari”.
Il modello cinese e il modello americano a confronto…
“Il modello americano, soprattutto quello degli ultimi 20-30 anni, è fondamentalmente militare”, sottolinea Forchielli. “Quello propugnato dalla Cina è invece un modello economico e politico, con minori investimenti, minori rischi e maggiori guadagni”. In altre parole: “Gli Usa bombardano e si fanno molti nemici. I cinesi non bombardano, comprano e spendono di meno: i 63 miliardi dati in prestito al Venezuela sono gli stessi soldi che gli americani spendono in un giorno di guerra”.
Su cosa si basa la forza del modello cinese?
“È un modello autocratico che deriva dal passato imperiale e dall’esperienza comunista, che si fondono intorno ai valori confuciani – continua Forchielli -. I cinesi studiano attentamente i modelli di altri Paesi. Dalla loro analisi dei modelli democratici, emerge un quadro devastante nel quale la politica scende di livello e rimane schiava delle grandi lobby, l’economia si mangia la politica, il Paese non è governato e imperano la disuguaglianze. Un processo evidente negli Stati Uniti, dove le grandi lobby hanno creato una classe di poveri che hanno portato all’elezione di Trump. Un fenomeno altrettanto evidente è nell’aumento dei populismi, nell’incapacità di governare la globalizzazione tipica dei Paesi democratici, dove il popolo diventa preda dei media legati alle grandi lobby e viene chiamato a decidere su questioni cruciali”.
Ecco dunque la democrazia vista con gli occhi di Pechino
“Ai loro occhi il modello democratico non funziona, porta alla paralisi, alla disuguaglianza, al fermento sociale; i Paesi del Nord Europa e il Canada rappresentano rare eccezioni. Se i cinesi avessero trovato qualcosa di intelligente nei nostri modelli, lo avrebbero applicato. Pechino ha poi l’esempio negativo dello sgretolamento dell’ex Unione Sovietica. E così sceglie la sua strada. Del resto, molti in Europa sarebbero disposti a cedere un pezzo di democrazia in cambio di governabilità…”.
La Cina tenterà di esportare il modello?
“No, ai cinesi importa solo di se stessi. A loro va sempre bene tutto. Se il Paese in cui hanno investito diventa autocratico, lo comprano; se rimane democratico, hanno la garanzia di un mercato aperto. Fanno patti con qualsiasi autocrate, ma né lo distruggono né lo mandano a casa, come accaduto in Libia e in Iraq”.
I cinesi e Trump: amore e odio?
“I cinesi amano e temono Trump al tempo stesso. Lo temono perché hanno paura della sua irrazionalità. Lo amano perché non dà lezioni di democrazia. Del resto, per Trump i modelli autocratici di Xi e di Putin sono mete da sogno. I cinesi non sopportano i leader democratici che vogliono dare loro lezioni di democrazia. E poi gli Usa, per la Cina, negli ultimi 30 anni sono stati un benefattore. Hanno garantito la sicurezza dei mari e l’apertura dei mercati. La pax americana ha garantito lo sviluppo cinese. Oggi la Cina vuole modificare l’ordine mondiale a proprio favore”.
Qual è la strategia di Xi con Trump?
“Comprarlo. I cinesi investirebbero in tutti i suoi progetti immobiliari, costruirebbero 30 Trump Tower in 30 città diverse… La figura di Trump come imprenditore è riverita. Il problema vero la Cina non ce l’ha con Trump, che conta in modo limitato: prende batoste politiche e può solo mandare dei tweet. Il problema è con l’establishment americano, che è fortemente anticinese. Negli Usa è diffusa la convinzione che con la Cina non si riuscirà mai ad avere un rapporto simmetrico. Il risultato? Chiusura. Le imprese americane in Cina sono bistrattate. Facebook non entra, Whatsapp ha problemi. La Cina va nella direzione di sostituire la tecnologia degli altri con la propria. Gli Usa si sentono minacciati dal punto di vista economico e militare: in alcuni settori, come il cyberwarfare, i cinesi sono avanzati, in altri c’è parità di mezzi e questo tiene lontani gli americani dal Pacifico. I cinesi in Australia hanno trasformato il potere economico in influenza politica. Trump non può fare la differenza. Il grande abbraccio con l’America è fallito”.
C’è un fronte anticinese nel mondo?
Usa, Giappone, India, Europa: nel mondo si sta plasmando un fronte anticinese, dice Forchielli. I segnali? “Lo scudo contro gli investimenti cinesi in Europa. La legge ad hoc in Germania. La proposta di allargare il CFIUS, il Comitato per gli investimenti stranieri negli Stati Uniti. Il riarmo del Giappone. La nuova assertività indiana. E’ un fronte destinato a rafforzarsi, dal Vietnam alla Corea del Sud (dove gli Usa hanno installato il THAAD facendo infuriare i cinesi). La Cina spera che Trump possa cambiare la situazione, ma ha capito che il Congresso e l’opinione pubblica americana sono fortemente anticinesi. Ed è lo stesso sentimento che si sta diffondendo anche in Paesi come l’Australia. La Cina non è isolata: Pechino può sempre contare sui paesi emergenti e sulla Russia, ma tra le economie forti il blocco anticinese si sta compattando”.
“Juncker o non Juncker, ormai sono tutti guardinghi”
L’approvazione dello scudo contro gli investimenti predatori da parte di Paesi terzi annunciato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker a settembre è in dubbio, secondo Forchielli. “Per i Paesi dell’Est Europa gli investimenti cinesi sono come una manna dal cielo. Pechino vuole conquistare l’Europa orientale per espandersi a Ovest. Lo scudo si scontra anche con l’ostilità dei Paesi del Nord Europa che sono liberisti e non vedono favorevolmente manovre di questo tipo”. Una nota personale: “Fu proprio il sospetto verso gli investimenti cinesi ad allontanarmi dalla Cina. Capii che i cinesi che investono in Europa non si sarebbero adattati, non avrebbero assorbito i nostri valori, ma avrebbero tentato di trasmettere i loro principi. Io non mi sono convertito”.
Cosa vuol portare a casa Trump dal tour in Asia?
“Trump è imprevedibile e nessuno sa cosa abbia in testa né quanti tweet farà… Il leitmotiv del Congresso è di contenere la Cina, come emerge dalle recenti missioni dei funzionari americani nella regione. Del resto, tutti i Paesi asiatici temono la Cina. Non possono farne a meno dal punto di vista economico, ma temono la strisciante sinizzazione della loro società. I cinesi entrano nell’economia e poi influenzano la politica, coordinano gli studenti cinesi, aprono gli Istituti Confucio, danno le bandierine agli expat, convertono i loro immigrati in forza politica. In Thailandia, per esempio, da un lato la Cina è fonte di reddito grazie ai crescenti flussi turistici, dall’altro sono tre anni che è in stallo la costruzione cinese della ferrovia che collega Kuala Lumpur e a Singapore attraverso il territorio thailandese. Le economie asiatiche hanno un atteggiamento duale nei confronti di Pechino. L’Indonesia non lo dice, ma nutre un sentimento anticinese strisciante. L’alta velocità è bloccata. Stanno cercando di salvare le isole dai pescatori cinesi. Diversi Paesi stanno cercando di bilanciare loro posizione nei confronti della Cina tirando dentro Usa, Giappone e India. La politica americana in Asia è dominata dal tentativo di contenere la Cina creando un blocco anti-cinese. Poi ci sono alcuni paesi, come la Cambogia, che cercano di mantenere i piedi in due scarpe”.
Corea del Nord, il mostro protetto da Pechino che ora si ribella
Intervista di Alessandra Spalletta, pubblicata su Agi.it
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