La Cina, motore dell’economia mondiale, da tempo ha un paio di cilindri grippati. Le cause non sono circoscrivibili solo alle draconiane misure anti-Covid, allo scoppio della bolla immobiliare o alla crociata governativa contro i giganti del tech. È un male oscuro più profondo ad alimentare un’insana pulsione isolazionista. Lo documenta lo European business in China position paper 2022/2023 della Camera di commercio europea in Cina, forte di 1.800 membri. Un grido di dolore, lungo oltre 400 pagine, sul deterioramento dei rapporti tra governo e imprese europee presenti nel Paese. Nell’introduzione, il presidente Jiirg Wuttke parla senza perifrasi di due mondi su traiettorie divergenti. Negli investimenti diretti, sia dalla Cina che verso la Cina, si registra una netta caduta (da livelli che erano, anche in tempi migliori, ben al di sotto del potenziale), mentre permane lo squilibrio nei rapporti commerciali (l’Europa esporta in Cina la metà di quanto importi). Non contribuisce a rasserenare il clima l’insistenza del presidente cinese Xi Jinping sull’autosufficienza della “Fortezza Cina” e Possessivo messaggio buy China veicolato alla popolazione. Peraltro la spinta alle riforme dell’economia centralizzata si è esaurita e, anzi, ha invertito la direzione e le imprese statali hanno riacquistato preminenza nella politica industriale. Le conclusioni sono lapidarie: la Cina è meno prevedibile, meno affidabile, meno efficiente, più politicizzata, con interi settori strategici dove predomina la mano pubblica. Con linguaggio diplomatico nel position paper vengono stigmatizzate le pervasive barriere all’ingresso (divieti, regole assurde e muri di gomma burocratici), imposte dalle autorità di Pechino per scoraggiare le imprese straniere e viene ventilata la minaccia di trasferire in Paesi limitrofi, se non interi stabilimenti, di certo alcune linee di produzione. Anche perché la resilienza delle catene di approvvigionamento è assurta a priorità strategica nei consigli di amministrazione e nelle valutazioni degli investitori, considerando i rischi di una nuova Guerra fredda. Il conflitto in Ucraina ha esacerbato le frizioni con l’Occidente (già attizzate dall’atteggiamento urticante dell’ex presidente americano Donald Trump), riacutizzando i contrasti su Taiwan e spingendo a valutare seriamente le ripercussioni di un’invasione più volte minacciata da Xi (dopo la brutale repressione a Hong Kong e nello Xinjiang). Insomma, le imprese europee in Cina si sentono trascinate in un gorgo torbido, mai sperimentato nei decenni passati, neanche dopo il massacro di piazza Tienanmen, e temono di diventare vittime (o danni collaterali) nella contesa per la supremazia tra Stati Uniti e Cina. Per provare a invertire la tendenza, o quantomeno riprendere il dialogo, la Camera di commercio europea propone quasi mille raccomandazioni puntuali. In pratica urge ristabilire alcuni princìpi di convivenza pragmatica, nel quadro della nuova normalità, ed evitare di dover compartimentalizzare le produzioni in Cina, separandole da quelle in Europa. Il position paper non si limita alle lamentele e alle rimostranze: avverte le autorità cinesi che il tempo dell’acquiescenza europea di fronte all’arroganza cinese è scaduto. Le istituzioni comunitarie hanno preso contromisure serie: l’Intemational procurement instrument, entrato in vigore in agosto, impone la reciprocità per la partecipazione agli appalti pubblici. Inoltre la Ue introdurrà regole drastiche contro i sussidi statali che distorcono le ragioni di scambio e vieterà i beni prodotti col lavoro forzato. Infine non sarà tollerato il bullismo economico e commerciale volto a punire Paesi quali Australia o Lituania, per le loro posizioni diplomatiche o politiche sgradite a Pechino. Pertanto i rapporti della Ue con Taiwan rimarranno solidi e proficui. Nonostante ciò, la Camera di Commercio Europea auspica che tra le due economie prevalga il senso di responsabilità. La lista delle richieste, lunga ed articolata, può essere riassunta in 10 punti:
1)Riconcentrarsi su riforme, apertura dei mercati e protezione della proprietà intellettuale;
2) riaffermare l’impegno alla globalizzazione e alle istituzioni multilaterali;
3)ristrutturare le aziende pubbliche con criteri di mercato;
4) immunizzazione completa contro il Covid (con vaccini efficaci), riaprirei voli ed eliminare le quarantene;
5)aprire il mercato del lavoro a talenti stranieri;
6) allentare le tensioni su Taiwan;
7) astenersi da ritorsioni sulle aziende per le azioni dei loro governi nazionali;
8)affievolire l’enfasi sull’autosufficienza e il protezionismo commerciale;
9)creare istituzioni che garantiscano equo trattamento tra investitori stranieri e cinesi;
10) rendere i processi amministrativi trasparenti, coerenti, prevedibili e non erratici.
È alquanto improbabile che i vertici del Partito comunista cinese siano inclini a soddisfare queste richieste, a meno che l’imminente Congresso non imprima una svolta radicalmente riformista. In fondo persino in Cina (almeno per il momento) sognare non costa.
Il nuovo articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su “Il Sole 24 Ore”