Per l’immaginario collettivo di un certo demi monde intellettuale, i Brics raffigurano la nemesi dell’Occidente (più o meno allargato), il riscatto delle ingiustizie patite dai diseredati, l’Ordine Mondiale Progressista imperniato sul Sud Globale. Un afflato di fratellanza tra le moltitudini affrancate, sotto l’egida della Cina, potenza planetaria equa e solidale, minerà la supremazia dell’esecrato sistema capitalistico. Peccato che cotali credenze si infrangano contro la scogliera della realtà macroeconomica e un coacervo di interessi nazionali.
Un caso plateale è la mina vagante rappresentata dalla sovracapacità dell’industria cinese. Il Segretario del Tesoro Usa Janet Yellen durante la recente missione in Cina, ha sollevato la questione con toni insolitamente assertivi (specie per lei che verso il governo di Pechino da sempre esprime posizioni concilianti): «Washington non accetterà che le nuove industrie siano decimate dalle importazioni cinesi». Tuttavia la questione travalica l’alveo sino-americano, riverbera sulla Ue (dove è in corso un’indagine sulle sovvenzioni pubbliche alle industrie automobilistica ed eolica cinese), e si estende con effetti dirompenti ai Paesi emergenti.
Le aziende cinesi sono impegnate in un disperato tentativo di smaltire all’estero i magazzini senza curarsi delle ripercussioni sulle relazioni internazionali. Secondo Abn Amro, quest’anno i prezzi dei beni esportati dalla Cina sono crollati di circa il 20%, in parte per l’allentamento dei colli di bottiglia logistici, ma soprattutto per gli sconti aggressivi.
Le reazioni a questa offensiva commerciale non hanno tardato a scattare. L’India, altro pilastro economico dei Brics, ha lanciato una verifica sul dumping cinese in settori che spaziano dai componenti chimici alle schede elettroniche, dai fogli di alluminio ai pannelli solari.
Anche il governo del Brasile, dallo scorso autunno, braccato dalle pressanti richieste delle associazioni industriali, ha aperto una mezza dozzina di dossier sulla concorrenza sleale cinese per prodotti chimici, pneumatici, acciaio e quant’altro. In sostanza anche le pulsioni anti americane e vetero terzomondiste di Lula si sono dissolte di fronte alla difesa delle industrie nazionali dalle pratiche predatorie del presunto alleato. Il quale, preme ricordare, è anche un cliente di primissimo piano dell’agroalimentare brasiliano: nel 2023 la Cina ha assorbito il 70% delle esportazioni di soia per un valore di circa 39 miliardi di dollari.
Se allarghiamo lo sguardo al resto del Sud Globale il quadro rimane fosco. A settembre, il Vietnam, che in passato aveva avuto dispute sulle importazioni di acciaio, ha iniziato un’analisi sui prezzi delle torri eoliche importate dalla Cina. A sua volta, governo thailandese ha accusato le aziende cinesi di aver aggirato i dazi anti-dumping, dopo che le aziende locali hanno accusato perdite cospicue dovute alla concorrenza dell’acciaio cinese.
Infine, nei giorni scorsi, il Messico ha imposto dazi aggiuntivi sulle importazioni di 544 prodotti (in primis acciaio, alluminio, plastiche e mobili) da Paesi con cui non ha firmato un Trattato di libero scambio, tra cui la Cina (suo secondo partner commerciale), che variano dal 5 al 50 per cento. Insomma le dubbie pratiche a cui ricorre il neomercantilismo cinese hanno sbriciolato la presunta, ma mai testata, coesione del Sud Globale e le ubbie sul mondo multipolare.
In definitiva, gli interessi economici dei Brics e del Paesi del Sud Globale non solo non risultano allineati ma in larga misura sono conflittuali. La Cina ha un’industria manifatturiera in prepotente concorrenza con quella di tanti altri Paesi intenti ad uscire dalla trappola del reddito medio. Pertanto l’impellenza disperata delle aziende cinesi di smaltire la sovra produzione ovunque possibile le pone in rotta di collisione con le manifatture a basso valore aggiunto di altri produttori asiatici e sudamericani.
Al contrario, molti Paesi emergenti intravedono l’allettante opportunità di sostituire le loro esportazioni a quelle cinesi colpite dai dazi negli Usa e in Europa, soprattutto nei settori meno avanzati, e di attirare gli investimenti delle multinazionali in fuga dalla Cina. Insomma, contrariamente alla vulgata divulgata dal demi monde, il Sud Globale ha un interesse pressante ad agganciarsi al friend shoring occidentale e a sganciarsi dal soffocante abbraccio cinese. L’Ordine Mondiale Progressista è destinato a rimane in attesa di tempi più propizi. Se mai si materializzeranno.
L’articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore, 9 Maggio 2024