I “neo-colonialisti”, gli “integratori”, gli “speculatori” e gli “sfigati”, ecco come si possono inquadrare le nazioni nel loro rapporto con i migranti, che, vale la pena di sottolinearlo, rappresentano oggi – e di più nel futuro – il quinto Paese più grande del mondo: un “Non-Stato” composto da un popolo di 240 milioni di persone che vivono fuori dai loro confini natii. Parliamo di una nuova e grande nazione di migranti che nei prossimi decenni innescherà rilevanti effetti geopolitici a livello mondiale. Per un fenomeno economico e sociale dove il migrante può assumere un ruolo positivo o negativo sia nel Paese di destinazione sia in quello di partenza.
In cima ai Paesi “neo-colonialisti” troviamo la Cina che con la sua superpotenza migratoria ha realizzato centinaia di miliardi di opere infrastrutturali in almeno venti Stati africani e ogni volta vi ha trasferito la sua manodopera: operai cinesi che hanno portato con loro cugini e parenti. Così in Africa si sono stabilizzati alcuni milioni di cinesi che, di fatto, stanno formando l’odierna classe dirigente africana, oltre al fatto che negozi al dettaglio e all’ingrosso, impianti e piccole imprese hanno soppiantato le attività locali.
Anche gli indiani sono un popolo neo-colonialista. In California rappresentano una percentuale molto rilevante di start up innovative. La diaspora indiana ha quindi già in mano una grossa fetta della tecnologia che si sviluppa non solo in India, ma anche negli Usa. E l’India domina anche altre e importanti leve della tecnologia a livello mondiale. Per citare alcuni esempi, l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, è di origine indiana, come la ex CEO di Motorola, Padmasree Warrior, e l’amministratore delegato di Google, Sundar Pichai.
Volenti o nolenti esistono popolazioni e Paesi vincenti, che vanno, creano, controllano, si insediano, si integrano e rimangono, coltivando grandi e ottime basi per i Paesi d’origine. In altre parole, i nuovi colonialisti sono come i coloni europei che “invasero” il mondo nei secoli XVIII e XIX, portando benefici non solo a se stessi ma anche alle loro terre. Allo stesso modo, le popolazioni in movimento del XXI secolo aiutano i loro Paesi di origine ad avere accesso ai mercati, alla tecnologia e voce in capitolo nella politica mondiale.
Nello specifico, l’India riceve ogni anno oltre 70 miliardi di dollari in rimesse, quasi il 4% del suo PIL. Gli orientamenti geopolitici di America e India sono cambiati e gli Stati Uniti nel tempo hanno modificato anche i rapporti politici di equidistanza tra India e Pakistan.
Invece gli “integratori” sono i Paesi furbi perché hanno la capacità di attrarre e ospitare i migranti in funzione del loro valore aggiunto. Gli Stati Uniti d’America, in questo senso, da sempre, hanno saputo integrare i talenti mondiali. Tanti scienziati provenienti da ogni parte del pianeta (e da molto prima di Enrico Fermi) hanno trovato grande accoglienza e supporto negli USA. La grande ossatura tecnologica del Paese e anche quella territoriale è composta principalmente di stranieri. Lo abbiamo visto durante la presentazione dei nuovi progetti dei professori del Master of Arts in Teaching (MAT) a Boston. Non c’era un americano.
L’immigrazione ha portato talenti anche in Israele, dove il capitale ha garantito le interazioni con il resto del mondo. Israele è un Paese hi-tech ed è estremamente connesso. Il governo garantisce la presenza di consulenti stranieri preparati e offre loro voli di sola andata, formazione linguistica e sostegno pratico sul territorio. Il risultato? Una popolazione che raggiunge nove volte il numero di presenze sul territorio rispetto ai dati registrati del 1948, anno di fondazione del Paese. D’altronde non si spiegherebbe come 7,1 milioni di individui, circondati da nemici acerrimi e senza risorse naturali proprie, riescano a produrre più start up rispetto a grandi, pacifiche e stabili nazioni come Giappone, Cina, India, Corea, Canada e Regno Unito.
Altrove 35 milioni di curdi si identificano in una potenziale nazione senza Paese e rappresentano una delle popolazioni migranti politicamente più attive in Europa. Questo è il motivo per cui i governi di Svezia e Germania, che hanno accolto un grande numero di curdi, ora li sostengano militarmente nella lotta contro l’ISIS.
Nella gestione della “questione migranti” troviamo poi gli “speculatori”. Sono i Paesi che sfruttano l’immigrazione, come la Turchia: una volta fattasi avanti per l’adesione all’Unione Europea, detta i termini del suo rapporto con Bruxelles.
Poco più in là, il 90% di tutti i migranti dell’Africa occidentale diretti verso il Mediterraneo passa attraverso il Niger, che così è riuscito a garantirsi un business da 1 miliardo di euro (in aiuti da parte della UE).
E nel recente passato un’altra realtà che è stata coinvolta in situazioni del genere è la Libia di Gheddafi, che ha saputo con le sue minacce garantire al Paese enormi profitti.
Poi ci sono gli “sfigati” come l’Italia. Paesi perdenti, che gli immigrati non li scelgono, ma li subiscono. Paesi che spendono per accogliere i migranti ma non riescono a integrarli.
In conclusione, considerando il grande sviluppo potenziale dei fenomeni migratori del futuro di questo grandissimo “Non-Stato” in movimento, non siamo sicuri che l’Europa del sud riesca a elevare il livello sociale ed economico dei Paesi verso cui questo flusso di migranti è destinato. Di certo giocherà un ruolo importante il sistema dei criteri di integrazione e di scelta, ma sarà la storia a darne conto. In ogni caso, per l’Occidente, la sfida più grande sarà quella di conciliare la pressione interna delle frontiere chiuse con i vantaggi geopolitici nell’abbracciare la migrazione. Perché, oggi e domani, bisogna sapersi collocare nel modo giusto di fronte al fenomeno migratorio per poterne ricavare il massimo vantaggio e mitigarne gli svantaggi; ovviamente rimandando sempre all’intelligenza delle persone e alla capacità di sapersi organizzare.
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