Lo spazzino dello spazio!
E chi lo fa? Anche un italiano!
Sembra pazzesco scriverlo – anche se in realtà, riflettendoci un attimo, è decisamente comprensibile – ma oltre cinquant’anni di programmi spaziali hanno creato una nuova tipologia di problematica: la gestione dei detriti spaziali o “space debris”.
Oggi più che mai è necessario pianificare il recupero e la gestione dei detriti generati dai satelliti in orbita per evitare il possibile scenario teorizzato da Donald Kessler, famoso astrofisico e consulente della NASA, ovvero una reazione a catena generata dagli urti tra satelliti che renderebbe lo spazio prossimo alla Terra inservibile per molte generazioni, impedendo il lancio di qualsiasi dispositivo. Questo perché gli oggetti in orbita viaggiano a velocità elevatissime e l’energia cinetica di una collisione produce un elevato numero di detriti, che a sua volta possono provocare altre collisioni seguendo un effetto domino. E, chiaramente, all’aumento del numero di lanci – nei prossimi cinque anni verranno realizzati tanti lanci nello spazio quanti ne sono stati effettuati dal 1957 a oggi – corrisponderà un aumento considerevole di detriti e di satelliti obsolescenti.
Detto ciò, va sottolineato che al momento i detriti presenti in orbita non sono recuperabili ed è difficile stabilirne la traiettoria e il numero. Questa realtà costringe gli operatori satellitari a eseguire manovre al fine di evitarli che riducono il carburante a disposizione dei satelliti e con esso anche la durata della missione.
A proposito, come funziona lì in alto? Allora prima c’è Leo, poi Meo e infine Geo… Vi prendiamo in giro? No, LEO sta per Low Earth Orbit (orbita terrestre bassa), la fascia orbitale caratterizzata da un’altitudine inferiore ai 2.000 chilometri, ideale per le orbite eliosincrone delle missioni di osservazione della Terra, che “sguazzano” tra i 600 e gli 800 chilometri d’altezza. MEO è l’acronimo di Medium Earth Orbit (orbita terrestre media), la fascia orbitale compresa tra i 2.000 km e i 36.000 chilometri, dove troviamo le costellazioni satellitari Glonass (dei russi) e GPS (degli americani). Infine GEO significa Geostationary Earth Orbit (orbita geostazionaria) e qualifica l’orbita equatoriale che si trova a una altezza di circa 35,786 chilometri. E risulta molto strategica perché il periodo orbitale di un satellite in GEO è uguale a quello di rotazione della Terra. Per questa ragione i satelliti geostazionari appaiono fissi rispetto a un osservatore posizionato sulla Terra. Questa caratteristica è particolarmente desiderabile nei satelliti per le telecomunicazioni, che possono servire senza interruzioni una precisa area geografica. GEO è anche chiamata Fascia di Clarke, dal nome del famoso scrittore di fantascienza, che fu il primo a pensare all’utilizzo dell’orbita geostazionaria per i satelliti dedicati alle telecomunicazioni.
E l’approssimarsi di un quinquennio di intensa attività aerospaziale ha messo in evidenza l’esigenza tecnologica di strumenti di controllo del rischio in questo settore. E tra i competitor – udite, udite – ha un ruolo di primordine l’azienda comasca D-Orbit, che ha brevettato il D3, un dispositivo propulsivo basato su propellente solido che, installandolo prima del lancio, garantisce la rimozione rapida e sicura di un satellite al termine della sua missione, tecnicamente detta “decommissionamento dei satelliti” (inoltre D-Orbit produce anche il D-Raise, dispositivo che posiziona più velocemente i satelliti in orbita).
Segue e termina ➡️ Sabato 17 Novembre