II male oscuro dell’economia cinese aveva manifestato sintomi acuti già dalla fine dello scorso decennio. Ma il Covid ne aveva sfocato i contorni e offuscato la gravità. La stagnazione dei consumi, la bolla immobiliare, la frenata del PIL, la disoccupazione giovanile, la diminuzione dei profitti industriali, il declino delle esportazioni eccetera venivano attribuiti alla pandemia. In realtà il Covid aveva esacerbato dinamiche già in atto e che, dopo la fine del feroce lockdown, si sono stagnate nitidamente. Il sospirato rimbalzo dell’economia si è esaurito nel primo trimestre di quest’anno: i consumi privati, compressi per tre anni, non hanno brillato e il gigantesco settore manifatturiero, oberato di sovra-capacità, da 13 mesi spinge i prezzi alla produzione in deflazione che ormai, secondo l’ultimo dato, attanaglia anche i prezzi al consumo. Lo smacco peggiore per il regime di Xi Jinping è la caduta degli investimenti dall’estero (nuovi investimenti e profitti reinvestiti) che nel terzo trimestre del 2023 hanno registrato un deficit di 11,8 miliardi di dollari, il primo da quando sono iniziate le rilevazioni nel 1998. L’inversione di tendenza era iniziata dopo i brutali lockdown a Shanghai nel secondo trimestre dell’anno scorso: secondo il «WSJ», da marzo 2022 a settembre 2023 le imprese straniere hanno ritirato dalla Cina oltre 16o miliardi di dollari. In sostanza gli investitori stranieri, soprattutto le multinazionali che avevano avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione della Cina post maoista nella manifattura del mondo, stanno votando con il portafoglio la sfiducia a Xi Jinping e alle sue manie di egemonia planetaria. Analoga sfiducia viene espressa dai risparmiatori cinesi che in barba ai divieti stanno portando miliardi di dollari all’estero. A Singapore in pochi anni sono stati creati un migliaio di nuovi family office cinesi, aggiuntisi ai duemila già presenti. Questo tonfo dei flussi di capitale sicuramente è stato determinato dal testacoda geopolitico causato dal Covid, dall’invasione dell’Ucraina e dalle reiterate minacce di aggressione contro Taiwan, per cui gli appelli al reshoring, al friend shoring e al de-risking non sono più suonati come vacua retorica patriottarda, ma come un’esigenza strategica prioritaria. Le grandi banche di investimento hanno creato unità ad hoc per fornire alle multinazionali analisi sui rischi geopolitici che minacciano le loro catene del valore. Pertanto le multinazionali stanno dirottando i loro investimenti verso Messico, Vietnam e persino India, Indonesia e Bangladesh. Peraltro a spargere sale sulle piaghe e a far scattare l’allarme rosso ha contribuito la legge cinese sull’intelligente, che impone alle società (incluse quelle straniere), l’obbligo di fornire alle autorità tutte le informazioni che queste richiedono e di non diffondere dati sensibili «perla sicurezza nazionale». Le camere di commercio americana ed europea nei loro rapporti annuali hanno affermato che la situazione delle imprese straniere in Cina è deteriorata anche a causa di controlli occhiuti esercitati nella gestione dai «commissari del popolo» mposti dal regime. Persino la Apple – esempio paradigmatico di azienda perfettamente integrata tra progettazione in America e manifattura in Cina – sta riconvertendo le sue catene di approvviggionamento. Il quotidiano giapponese «Nikkei Shimbun» ha incaricato Fomalhaut Techno Solutions di verificare il contributo da vari paesi al valore aggiunto dell’iPhone 15 Pro Max. I componenti americani svettano al primo posto con circa il 33%, seguiti dai coreani con il 29%, poi i giapponesi (io)% e taiwanesi (9%). La quota di componenti cinesi è stata compressa alt per cento. L’incontro tra Xi Jinping e Biden riflette il male oscuro che il vertice del Pcc non sa come debellare. Dai discorsi di Xi sono sparite le rodomontate sull’inevitabile primazia economica cinese, sul declino dell’Occidente e sulla fallacia dei suoi valori. Persino la questione di Taiwan è rimasta sullo sfondo. I toni conciliatori sottintendono una richiesta di tregua che Biden concederà fino alle prossime elezioni, soprattutto se la Cina desse una mano sull’Ucraina e su Gaza. Invece le imprese americane non si lasceranno incantare dalle suadenti parole di Xi. La grottesca standing ovation da stadio tributatagli alla cena in suo onore da Ceo del calibro di Cook e Musk è il canto del cigno del matrimonio di interesse.
L’Articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore