La consulenza finanziaria, in teoria, dovrebbe offrire informazioni trasparenti e accurate ai risparmiatori, consentendo loro di assumere decisioni quanto più informate e consapevoli sugli investimenti in base ai loro obiettivi e soprattutto ai rischi che sono disposti a correre.
Di conseguenza, il Sacro Graal della professione consiste (o almeno dovrebbe) nel garantire la massima tutela dei risparmiatori e la corretta allocazione dei prodotti finanziari disponibili sul mercato nei portafogli dei clienti (profilati secondo quanto disposto dalla Direttiva Mifid dell’Unione Europea).
Ma mentre i Cavalieri della Tavola Rotonda per lanciarsi alla ricerca del Graal, come precondizione dovevano dimostrare una certa purezza d’animo, altrettanto non si può affermare per i consulenti finanziari, non di rado fintamente indipendenti, perché in realtà sguinzagliati dalle banche a caccia di prede. Il che espone a palesi conflitti di interesse.
Il fulcro di tale conflitto riguarda le cosiddette retrocessioni delle commissioni (o inducement) che le società di gestione pagano ai “piazzisti”, cioè alle reti di distribuzione di prodotti finanziari con cui hanno accordi commerciali. È lecito chiedersi se nei portafogli si inseriscono i prodotti che fruttano maggiori retrocessioni o quelli più adatti alle caratteristiche del cliente?
Già oggi esiste e si sta espandendo la consulenza finanziaria indipendente, che offre un’eccellente alternativa sia per quanto riguarda la competenza professionale, sia per la tutela del risparmiatore.
Ciò che penalizza la diffusione della consulenza indipendente è la parcella richiesta per usufruire del servizio. Tuttavia, la remunerazione dei professionisti indipendenti è imputata in modo trasparente e può essere negoziata anche in relazione al capitale gestito. In parole povere, questa soluzione potrebbe rappresentare un’opzione più vantaggiosa per i risparmiatori, che avrebbero un maggiore controllo sui costi. Al contrario, la parcella spillata all’ignaro cliente attraverso le retrocessioni non è esplicitata con cristallina chiarezza (in barba alla Mifid). Quindi l’occhio del risparmiatore non vede, ma, al contrario del cuore, il rendimento duole. E anche parecchio.
Il centro studi di Tosetti Value uno dei principali Multi-Family office in Europa, basato a Torino, ogni trimestre raccoglie i dati su costi e rendimenti aggregati del risparmio gestito in Italia direttamente dai bilanci dei fondi. I numeri relativi ai primi 9 mesi del 2022 confermano che i fondi italiani caricano commissioni ricorrenti (ongoing charge) “superiori del 50% rispetto alla media continentale anche quando i mercati deludono: 1,5% contro 0,95% su base annua”. Per di più le performance difficilmente giustificano i costi più elevati. Dal 2018, anno di inizio delle rilevazioni di Tosetti Value, in Italia il capitale investito ha registrato perdite aggregate, mentre nel resto d’Europa il gruzzolo è tendenzialmente aumentato, in alcuni casi anche del 20%. Invece, le spese correnti cumulate durante il periodo talvolta hanno superato il 10%.
Non sorprende quindi che la commissaria Ue ai servizi finanziari, Mairead McGuinness, abbia recentemente proposto di abolire le retrocessioni commissionali (come è già stato fatto in Olanda e nel Regno Unito) per promuovere la consulenza finanziaria indipendente. Secondo uno studio europeo citato dalla commissaria, se le retrocessioni fossero vietate, i risparmiatori beneficerebbero di oneri ridotti fino al 35% sui prodotti di investimento.
Tuttavia, banche e reti distributive hanno immediatamente approntato robusti cavalli di Frisia per proteggersi dall’infausta (per loro) prospettiva, asserendo che senza retrocessioni la remunerazione della consulenza verrebbe meno e il settore del risparmio gestito diventerebbe insostenibile. La veridicità di cotale asserzione è tutta da dimostrare, anzi l’evidenza e la logica puntano in direzione opposta. Ad esempio, i fondi attivi potrebbero essere quotati in borsa al pari degli Etf, e pertanto il risparmiatore potrebbe acquistare direttamente questi strumenti sapendo quali sono gli oneri di gestione e le commissioni di trading. Se volesse farsi consigliare da un professionista (indipendente o meno) sulle strategie di investimento gli pagherebbe la parcella separatamente. Tra l’altro in un paese dove l’analfabetismo finanziario è molto diffuso, anche tra coloro che hanno un titolo di studio superiore, il risparmiatore potrebbe beneficiare di corsi di formazione e di lezioni individualizzate per potersi districare nel labirinto delle offerte.
In conclusione, siamo alle prime scaramucce di uno scontro che vedrà contrapposti consulenti indipendenti, investitori, reti di distribuzione, Commissione Europea, governi sensibili agli interessi delle banche. Sarebbe il caso che i risparmiatori scegliessero consapevolmente da che parte stare e facessero sentire la propria voce.
Il II articolo della trilogia scritta da Fabio Scacciavillani e Alberto Forchielli per la rubrica INGLORIOUS GLOBASTARDS sul magazine INVESTIRE