Mi ha fatto molto piacere leggere sul Messaggero del 29 maggio l’editoriale DI Romano Prodi dove elabora le mie riflessioni fatte nella puntata di Piazza Pulita di inizio settimana. Fondo poi rilanciato anche dall’Ansa: «Doppia stoccata di Romano Prodi nell’editoriale domenicale pubblicato sul Messaggero. “Innovazione e investimenti per non finire come il Messico”, ha scritto commentando l’Assemblea annuale della Confindustria, spiegando che occorrono interventi d’emergenza per evitare “un’economia italiana sempre più anomala rispetto a quella degli altri Paesi europei”. […] A proposito del rischio Messico, Prodi cita un recente intervento di Alberto Forchielli, presidente e fondatore del fondo Mandarin Capital Partners, secondo cui il pericolo nasce dal fatto che l’Italia si sta “orientando verso una struttura simile a quella del Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche”. Eccole: “Una prima formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda che opera in un mercato informale sfruttando le imperfezioni del mercato e utilizzando una mano d’opera scarsamente specializzata” e una terza rappresentata da “una corposa parte del Paese” che “vive nell’evasione delle regole e nell’illegalità”.» Nonostante ciò, tenete presente che il Messico per alcuni aspetti è avanti a noi: le tasse sono molto più basse delle nostre, lo stato Messicano costa meno del nostro ed il loro rapporto debito PIL è al 43% rispetto al nostro al 133% e la loro disoccupazione è 2/3 più bassa della nostra. Se la “messicanizzazione” dell’Italia sarà affrontabile soltanto se sapremo gestire questo enorme Paese a tre teste, tenendolo bilanciato, il problema è ovviamente a monte, come sottolinea Prodi nel suo editoriale: «[…] penso che le tendenze che ci portano verso di esso debbano essere combattute con ogni mezzo, affermando in ogni circostanza la maestà della legge e operando sulla preparazione delle risorse umane che sono alla base del successo di ogni paese moderno. La lettura della realtà non è invece consolante perché i confronti sull’efficacia dei sistemi scolastici ci trovano costantemente in coda, intere realtà del paese operano sempre più nell’ombra e i dati sul progresso dell’illegalità e sulla penetrazione della criminalità nella vita economica e amministrativa sono allarmanti.»
Le risorse umane e il sistema scolastico, ecco uno dei nostri enormi problemi di sempre: la scuola italiana è sfasciata! Ho lasciato l’Università di Bologna nel 1978 e ci sono tornato a insegnare nei primi anni Duemila, per un triennio, quindi prima della crisi del 2009. E ho trovato le stesse aule, solo più fatiscenti. Con gli studenti che erano dieci volte quelli di un tempo e con i posti a disposizione per i neo-laureati che erano un decimo rispetto a una volta, perché nel frattempo le aziende sono fallite.
Non ci sono ricette miracolose per invertire la rotta. Servono percorsi lunghi. È necessario investire nella ricerca, ma è un lavoro almeno ventennale. Attenzione, non c’è niente di nuovo da inventare. L’esempio indicativo è il polo industriale bolognese, con le eccellenze che sono sempre le stesse di quando ero bambino: è stato costruito grazie al flusso costante di risorse umane in arrivo dalle scuole professionali Aldini Valeriani. D’altronde la Silicon Valley nasce intorno all’Università di Stanford e il polo biotecnologico di Boston è vicino a Mit e Harvard e non è un caso, perché è così che funziona: l’università scientifica è sempre al centro di tutti gli eco-sistemi innovativi.
Serve concretezza e strategia. Ma la faccio ancora più semplice. Basta lavorare di più e meglio. È questa la ricetta, ma nessuno la vuole applicare. Quando torno a Bologna la gente mi chiede sempre come facciamo a uscire dalla crisi. Io rispondo: servono sacrifici. Allora mi dicono: «Forchielli vai ben a far le pugnette, basta sacrifici!».
In questa antropologia sbagliata ci butto dentro anche il sindacato, che è stato un assurdo elemento frenante. In Italia ci sono comportamenti e benefici che si danno per acquisiti e che invece vanno ridiscussi a causa della globalizzazione.
Quindi se oggi mi “costringessero” a fare politica, be’ fonderei un partito o un movimento chiamato “Gestire il declino”, perché per avere una speranza di risollevarci dobbiamo rassegnarci a duri anni di abbassamento del nostro tenore di vita e dovremo combattere una crescente ondata di criminalità piccola e grande. Dopo quarant’anni che sento sempre le stesse cose, focalizziamoci su quelle poche che servono davvero. Per sopravvivere alla globalizzazione, per “messicanizzare” l’Italia il meno possibile stringiamoci per difendere la nostra comunità, riappropriamoci del significato vero del “senso del dovere” e rassegniamoci a lavorare di più e meglio.
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