Forchielli: per Xi unità e forza del partito vengono prima della crescita

Xi Jinping vuol lasciare la sua impronta, entrare nell’Olimpo dei grandi cinesi dopo Mao e Deng», spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia. «Non mi stupirei se si proponesse per un terzo termine, portando la sua presidenza a 15 anni».
Cosa si aspetta dal 19° Congresso?
Lì si deciderà chi e come comanderà in Cina nei prossimi anni, da un minimo di 5 a un massimo di 15.
Perché cinque o quindici?

Perché Xi potrebbe cercare di modificare la governance del Paese. Lo può fare alzando l’età pensionabile, o dissociando il titolo di presidente della repubblica da quello di segretario del partito o persino introducendo una norma che consenta di essere eletti per tre mandati e non due.
Cioè la sua presidenza potrebbe arrivare a 15 anni, non 10?
Esatto. Vorrebbe essere tra i grandi che hanno cambiato la Cina dopo Mao e Deng, entrare nell’Olimpo dei leader. Peccato che i suoi pensieri non siano rivoluzionari come quelli dei predecessori.
Come sta la Cina oggi, soprattutto sul versante del debito?
La Cina ha tre grandi problemi: demografia, ambiente ed eccesso di debito. Quest’ultimo è il
più grave. Sull’ambiente si muovono con grande determinazione, ma ci vorranno 20 o 30 anni, impossibile pretendere risultati a breve. Idem
per la demografia. Del tutto diversa la questione debito.
Perché?

In teoria potrebbe non essere più controllabile per quanto Pechino farà di tutto per farlo, anche a scapito della crescita. Ma Xi è homo politicus, non economicus. Vuole preservare il potere del partito, l’unità e la forza del Paese anche a costo di una crescita inferiore. Vuole un partito forte, centralizzato, un grande controllo di persone e situazioni a scapito di un Paese in cui l’industria privata ha più spazio e le persone possono investire all’estero. Il partito deve comandare, la stampa e internet sono sotto controllo e le critiche soppresse.
Ma così è più facile controllare la situazione in caso di crisi finanziaria.
Una crisi sarebbe possibile se la gente potesse portare fuori i soldi, ma i cinesi non possono farlo, quindi il rischio si riduce. Se l’economia fosse in mani private si investirebbe in altro modo, ma è in mano delle imprese di Stato che fanno ciò che vuole il padrone. Non esiste Parlamento, la banca centrale è soggetta all’Esecutivo, il web è bloccato. Controllare non è difficile.
Ma i gruppi di Stato come stanno?
Per me in teoria sono tutti falliti. Certo, se lo Stato interviene ciò non accade. La fuga dei depositi verrebbe soppressa dalla stampa di regime, e se finissero i soldi il governo glieli darebbe. Facile spostare in là il punto di crisi.
Ma fino a poco tempo fa si discuteva se dare o meno alla Cina lo status di economia di mercato.
La stessa Cina non ci crede più. Vede le distorsioni che ha creato in Occidente, le democrazie fantocce in Africa e in Europa, la bassa qualità dei nostri parlamentari. La democrazia, il mercato, per loro sono in grado di distruggere un Paese. Ciò che possono fare in Cina è spingere per una maggiore trasparenza dell’amministrazione pubblica verso i cittadini di modo che cali la corruzione. I fatti stanno dando loro ragione.
Intervista di Mariangela Pira, Milano Finanza, 14/10/2017
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