Il nostro eroe, in un tempo ormai lontano, non era ancora un esperto di questioni asiatiche. Sì, aveva già avuto a che fare con gli USA, la Banca Mondiale e diversi dittatori latinomericani ma in Asia non ci aveva ancora messo piede. Parliamo degli anni che vanno dal 1992 al 1994. Era il tempo di Mani Pulite e del maxiprocesso di Palermo, della strage di Capaci e di via D’Amelio. Del trattato di Maastricht, della guerra in Jugoslavia e dell’operazione “Restore Hope” in Somalia, sotto l’egida dell’ONU. Dell’arresto di Totò Riina e delle stragi di via dei Georgofili e di via Palestro. E della discesa in campo (vincente) di Berlusconi. Erano anche gli anni di Forchielli al Bilancio, agli Esteri e all’IRI.
Alberto, ci racconti qualche aneddoto di quando eri al Bilancio e agli Esteri? “Era il 1992. Al Bilancio dovevamo sciogliere la Cassa del Mezzogiorno come aveva stabilito il referendum. Dentro c’erano un sacco di opere incompiute, un vero disastro. Ed eravamo contrastati dalla mafia interna che non voleva scioglierla. Allora presi a mie spese un giovanissimo avvocato dello Studio legale Acquarone di Genova – attenzione, non chiedemmo la consulenza dello Studio perché sarebbe costata una fortuna – e il decreto lo scrivemmo io e lui nel mio ufficio. In realtà era un documento terribile, pieno di errori. Poi lo portammo al Bilancio e quelli di fronte a un simile obbrobrio furono costretti a lavorare per rimediare e si rivelò una mossa azzeccata. Nel 1993, invece, ero agli Esteri e iniziai la riorganizzazione dei meccanismi di cooperazione. All’epoca faceva scandalo perché ci costava 2mila miliardi di lire all’anno e a peggiorare il clima c’era la crisi somala, con l’apice raggiunto dall’agguato a Mogadiscio, con tre soldati del contingente italiano uccisi dai ribelli somali e 23 feriti e poi, sempre a Mogadiscio, nel mercato Bakara, con la morte di 19 soldati americani della Delta Force e un centinaio di feriti.”
Poi andasti all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), il maggiore ente pubblico che controllava diverse società di rilievo operanti nel mercato in diversi settori economici… “Sì, ne avevamo già parlato. Nel 1982, Prodi, nominato da Spadolini, era diventato presidente dell’IRI, che in quel momento si trovava in forti difficoltà economiche. All’IRI rimase fino al 1989. E ci tornò nel 1993, chiamato da Ciampi, per una serie di privatizzazioni di diverse società del gruppo. Quando Prodi arrivò all’IRI, nel 1982, era un colabrodo e quando la lasciò, nel 1989, era ristrutturata. La sua seconda esperienza, nel 1993-94, era legata a privatizzazioni necessarie e forzate dall’accordo ‘Andreatta-Van Miert’ (rispettivamente ministro degli Esteri e commissario europeo alla Concorrenza, nota di Herpes), che consentiva all’Italia di pagare i debiti dell’EFIM, andando contro i principi di libera concorrenza di Maastricht, ma con l’impegno di stabilizzare i debiti di IRI, ENI ed ENEL e poi ridurli progressivamente. Per fare ciò bisognava privatizzare gran parte delle aziende partecipate dall’IRI…”
Ok, il quadro è chiaro… “Ecco, io nel ’93-94 all’IRI ero il segretario generale della privatizzazione e riportavo direttamente a Prodi. C’era una pressione enorme. Erano anni difficili. Molte bande. Molti in galera. Mani Pulite che picchiava di brutto. Dovevamo cercare di fare cassa. Erano anche anni divertenti perché eravamo pieni di speranza, soprattutto il gruppo dei bolognesi capeggiato da Prodi e Andreatta che odiava il mondo delle partecipazioni statali dove non esisteva il merito ma solo la politica.”
Alla luce della storia nota, cosa dici… “Dico che facemmo l’errore di non capire che chi comprava – ovvero l’imprenditoria privata italiana – era forse peggio dei boiardi di Stato ramificati dentro al pubblico, che comunque andavano mandati a casa. Così ci hanno guadagnato i vari Benetton e Tronchetti Provera, per non parlare di Cuccia. Col senno di poi l’imprenditoria stracciona non era meglio di quella pubblica. E con le privatizzazioni necessarie di enormi patrimoni, l’Italia ha rifatto altri debiti e ci ha guadagnato un cazzo e un barattolo. Eravamo in buona fede e Romano Prodi ancora ci sta male ma non si poteva fare altrimenti.”
Be’, dovevamo adeguarci all’Europa… “Sì, con il solito errore di fondo.”
Quale? “L’errore vero è stato quello di pensare di essere un Paese europeo e non nord-africano. Era ed è sbagliato il concetto d’Italia. E comunque i detrattori di Prodi all’Iri devono andare a cagare. Io ho visto la vasca dei caimani e sono scappato in Asia. Romano è rimasto lì.”
Forchielli intervistato da Michele Mengoli per Oblòg (24 Luglio 2015)
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