Forchielli: «L’IA cinese mostra quanto sia avanti Pechino. Asia e Usa e bruciano l’Europa, ferma sull’innovazione.»

AIberto Forchielli è un imprenditore noto al grande pubblico televisivo per la competenza su Cina e mercati asiatici e per la capacità comunicativa. Consulente di imprese statali e della Banca Mondiale, è tra l’altro fondatore di una società di private equity.

La tecnologia cinese con DeepSeek mostra di aver fatto passi da gigante.
«Il nome lo si conosce ormai ovunque: è nata come startup cinese messa su rapidamente da un genio della matematica. Lui sembra un bambinetto, ma cambierà il mondo. Muovendo miliardi. Non tutti sanno che le startup cinesi sono in quasi tutti i casi finanziate da tre grandi fondi di investimento americani».

Di cosa ci parla?
«Di un fenomeno non più ignorabile. Democratizza la rete, uscendone. Democratizza i processi produttivi perché amplifica e velocizza l’espansione dell’intelligenza artificiale. Rende più accessibile l’AI, a basso costo e utilizzando molta meno energia. Dunque un progresso per tutta l’umanità, targato Cina».

Questo implica il tema del controllo, della censura sui diritti, delle informazioni falsate.
«Lo so, con questo dobbiamo fare i conti. Tutto quello che viene dalla Cina ha questo marchio di fabbrica. Ma grazie a DeepSeek ci saranno benefici notevoli per l’umanità, in campo consumer come in campo industriale. I benefici sono tantissimi».

Si parla sempre di prodotti cinesi a basso costo, ma scadenti. Che costano poco ma poi valgono in proporzione al costo. Può essere il caso delle tecnologie innovative?
«No. E comunque non è neanche più così in generale. Negli anni Ottanta la Cina era sessant’anni indietro rispetto al resto del mondo. Copiare l’Occidente per loro era già un lusso incredibile. Poi hanno imparato a fare le cose sempre meglio, con materie prime migliori e imparando il nostro know how, alleggerito da un costo del lavoro super economico. Quando i cinesi finiscono di copiare, inventano. E sono bravissimi».

Si diceva: “L’America inventa, la Cina copia, l’Europa regola”.
«Ma non è più vero. Tutto quello che c’è nel mondo è prodotto o inventato in Cina. Sono avanti anni luce, lo dicono ormai tutti i parametri. C’è un think tank australiano che ha curato una pubblicazione scientifica che mette in evidenza un dato: la Cina è al primo posto in sedici campi su ventiquattro».

E noi, in campo tecnologico, perché arranchiamo? L’Europa ha il capitale, il know how, la necessità, la capacità di assorbimento di mercato… Tutto. Tranne la tecnologia innovativa che importiamo da Usa e Cina, senza inventare mai niente. 
«Gli americani hanno la Difesa, che crea una buona parte della tecnologia. Attraverso la DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) creano una marea di tecnologie, di brevetti, di licenze: la stessa Internet, quando era Arpanet, è nata così. E poi gli americani sanno finanziare l’innovazione. Per il 70% il loro sistema è formato da intermediari che raccolgono tanto e canalizzano quasi tutto sull’innovazione. In Europa ci sono pochi soldi e abbiamo intermediari finanziari scadenti».

E le nostre startup?
«Sono limitate. Mal finanziate, tanto per cominciare. E limitate anche nella diffusione di mercato. Perché non è vero fino in fondo, poi, che siamo un mercato unico. Se lei oggi fa una startup in California, domani mattina conquista il Wisconsin. Se lei fa una startup a Milano, prima di poterne parlare in Germania sa quanto tempo deve passare? Gli adempimenti, le leggi locali, le tasse, le traduzioni in lingua…»

E poi c’è il tema delle università, centrali quando si parla di innovazione.
«I college americani sono il grande vivaio delle idee. Tutte le invenzioni e le innovazioni, dalla bioingegneria allo spazio, dalla tecnologia al mondo digitale – pensi ai social network – sono nati e si sono sviluppati nelle università, dalle università. Lei lo immagina uno che vuole fare un social media nuovo e va a parlarne ai suoi professori? E il giorno dopo magari va in banca e chiede cinque milioni di euro? Lo mettono alla porta, se gli va bene, prima all’università e poi in banca. E invece è esattamente quello che accade negli Stati Uniti, dove le università sono gestite privatamente, hanno uffici che comprano e vendono brevetti e licenze e tra l’altro hanno il visto per i ricercatori illimitato nella quantità e nella durata, perché estensibile. Significa che se io ho un buon progetto per le mani, nel mio laboratorio universitario posso far arrivare anche mille talenti internazionali in pochi giorni. Non esistono limiti. Mi dice dove si potrebbe fare lo stesso, in Europa? I nostri ricercatori guadagnano poco più di mille euro: non vedono l’ora di essere chiamati dalle università americane».

L’intervista di Aldo Torchiaro, pubblicata su Il Riformista