Marco Sorrenti mi ha invitato a pubblicare il diario di mio padre Sergente Maggiore che ha combattuto in Russia con la Divisione Ravenna.
Il diario scritto su un quadernetto cartonato che ho ritrovato in pessimo stato nella cantina dentro a una cassetta di legno insieme al tesserino militare, a una fodera da cappotto in pelle di pecora e a una croce di bronzo.
Il diario inizia il 10 dicembre del 1942 e termina il 6 ottobre 1943, molte pagine scritte a matita risultano illeggibili per l’umidità che le ha cancellate, per altre ho dovuto fare una certosina opera di ricostruzione, comunque quello che ne esce è la storia di una generazione che ha perduto la sua giovinezza per colpa della guerra……..Romano Giuliana
Parte II – Diario – Alfonso Giuliana classe 1917 Sergente Maggiore Divisione Ravenna
21 dicembre 1942 Lucifero
Lucifero è tornato, non so come, ma mi ha ritrovato, lo avevo perso durante gli scontri del 17 dicembre, pensavo fosse morto, magari ucciso da una granata, e invece eccolo che mi scodinzola intorno felice di avermi ritrovato, dall’aspetto sembra in buona salute, sicuramente sta meglio di me, questa immensa distesa di neve è casa sua, mi sono sempre chiesto se Lucifero sia più lupo o più cane, dall’aspetto sembra un lupo ma ha un carattere dolcissimo e protettivo, credo che l’affezione che prova per me, vada oltre il rapporto che si instaura tra l’animale e l’uomo, in molte occasioni ho avuto l’impressione che mi sia stato mandato per proteggermi, quando ci siamo incontrati la prima volta, se ne stava accucciato in una buca , sembrava morto, mi sono avvicinato e gli ho passato una mano sulla testa, allora lui ha mosso la coda, poi mi ha guardato con quegli occhi rossi quasi fosse lo sguardo del demonio, ha avvicinato il muso alla mia mano e me la leccata, da quel giorno siamo rimasti sempre insieme, ha un fiuto fantastico, più di una volta grazie a questa sua capacità in pattuglia mi ha salvato la vita, il perché sia improvvisamente sparito per poi tornare dopo quattro giorni rimarrà sempre un mistero
22 dicembre 1942 Giuseppe
Giuseppe non ce la fatta, si è addormentato per sempre, nella notte avevamo cercato riparo, ammassati l’un l’altro, accanto a un fuoco, Giuseppe sembrava tranquillo, aveva smesso di lamentarsi, ho pensato: ^ il freddo ha placato il dolore ^ , non era il freddo, ma la morte che si preparava a prenderlo. Così, in silenzio, il mio amico Giuseppe mi ha lasciato, se ne è andato a ventiquattro anni , lontano dalla sua terra, rimarrà tra questa neve alla pietà di chi ci insegue.”
23 dicembre 1942 La valle della morte
La temperatura è scesa ancora, combattiamo senza sosta da due giorni, hanno provato a rifornirci con qualche lancio, poca cosa, manca tutto, cibo, indumenti, munizioni, ripeto a me stesso le parole del cappellano:” tieni Dio nel tuo cuore”, ma in questo luogo desolato, che chiamano la valle della morte, c’è ancora Dio? Ci siamo asserragliati tra le rovine di un villaggio distrutto dal fuoco dell’artiglieria nemica, della mia compagnia siamo rimasti in dieci, gli ufficiali sono tutti morti, anche i tedeschi che ci guardavano con disprezzo adesso hanno parole di ammirazione, combattiamo a fianco a fianco uniti nel comune destino, i russi che ci credevano vinti rimangono stupiti per la nostra tenacia, hanno lanciato dei lasciapassare per gli italiani che vorranno arrendersi, il caporale Sposato ne ha raccolto uno e nel suo dialetto ha detto : “ meno male ora potiamo jettare o’picciulirru “, dal sorriso di altri soldati suoi paesani credo di aver capito a cosa si riferisce.
23 dicembre 1942 bruciamo le bandiere
L’ordine è di bruciare le bandiere per non farle cadere in mano al nemico, è straziante vedere il fuoco che consuma le bandiere e con esse le nostre identità, siamo veramente alla fine, ci ribelliamo al nostro destino, i russi attaccano nuovamente con grande slancio, ma noi riusciamo a respingerli, la neve e il freddo non ci danno tregua, Rocco mi cade accanto colpito in pieno petto, anche un fante della Torino che cerca di sorreggerlo viene colpito e cade, è come se mia madre che non ho mai conosciuto, mi avesse tessuto intorno uno scudo per proteggermi,di lei mi rimane solo una fotografia che si fa sempre più sbiadita, eppure, quel volto mi parla, mi conforta, mi sorride, la guardo e dico: “perché io no?” Ormai non provo più nulla , potrei essere stato colpito e non saperlo, freddo, rabbia e dolore, ma vado avanti, insieme a me, tanti giovani urlanti, i russi vacillano, poi iniziano a indietreggiare , siamo come demoni armati dal dio della guerra che ci sorregge e ci spinge sempre più avanti, molti cadono, gridano, implorano, inizia a calare la nebbia, superiamo le ultime case senza trovare resistenza, il ripiegamento inizia di nuovo, non c’è tempo per i feriti e per i morti siamo rimasti così pochi che potremmo contarci.
24 dicembre 1942 il cavallo
Scende nuovamente la sera, accanto a una casa isolata un fuoco e uomini che si danno un gran da fare, mi avvicino, a terra, tra la neve, giace un cavallo, un toscano con una baionetta , come fosse un coltello, taglia dal quarto posteriore alcune strisce di carne, i soldati che gli stanno intorno si accalcano per avere ognuno un pezzetto di quella carne gelata e dura come il marmo, ma non importa è carne, carne di un animale morto nella neve chissà da quanto tempo, ma che sembra un dono della provvidenza, Rizzo me ne allunga una striscia ; “Mangia sergente, se vuoi vivere, mangia”, non gliela faccio, guardo quel grumo rappreso di sangue gelato, devo vomitare, mi allontano in fretta e cerco di liberare il mio stomaco vuoto, Rizzo torna da me,”sergente, hai deciso di morire? Guarda che se non lo fanno i russi lo farà la fame”. avvicino alla bocca un pezzetto di carne, mastico veloce, lo schifo mi assale , “bevi un sorso di questa, è grappa di grano, la fanno i russi, l’ha trovata il toscano dentro la casa, non è granché, ma almeno scalda e serve a mandar giù senza troppi pensieri”. E’ la notte di Natale, del Natale del 1942 e sono ancora vivo.
25 dicembre 1942 la pietà dei russi
La illogicità della guerra, nasce da una logica razionalità che vede contrapposti vincitori e vinti, tra loro, non c’è spazio per i sentimenti, o almeno, ne ero convinto quando sono entrato in una casa vicino al bosco di betulle, una vecchietta mi ha accolto, e a gesti, e per le poche parole di russo che conosco, mi ha fatto capire che suo nipote Ananiy, figlio di suo figlio ucciso dai tedeschi l’anno prima, non ha fatto ritorno a casa, Ananiy un giovane di diciotto anni sta con i civili che combattono contro i tedeschi e noi italiani, la nonna teme che al nipote sia toccata la stessa sorte del padre, cerco di farmi descrivere questo ragazzo, ieri siamo stati attaccati e nel breve scontro tre civili sono stati uccisi, tra questi, un giovane che poteva avere diciotto anni, più la vecchietta và avanti , più mi faccio convinto che quel ragazzo ucciso potrebbe essere suo nipote, l’anziana signora, capisce dalla espressione del mio viso, và verso un ripostiglio e torna con una sciarpa di lana, me la mette al collo e piangendo mormora:”Ananiy, Ananiy”, la abbraccio e la bacio sulla fronte, con quella sciarpa anch’io sono diventato suo figlio.
26 dicembre 1942 Tscherkowo
Alle prime ore del mattino, in mezzo a una tempesta di neve, e con il freddo che toglie il respiro, arriviamo davanti alle prime case i tedeschi ci vengono incontro , domando a un unteroffizier che ne sarà dei nostri feriti, mi risponde che grazie a una pista aerea che tengono aperta con grande fatica, riusciranno a rimpatriarli, riceviamo dopo tanti giorni qualcosa di decente da mangiare, patate, pane nero e una scatoletta, poche cose ma sembra un pasto da re, tutti siamo convinti che ormai è fatta, nel pomeriggio invece conosco la triste verità, il fronte si è spezzato in più punti e siamo intrappolati in una grande sacca.
28 dicembre 1942 i tedeschi
Oggi , mi è tornato in mente un film che ho visto prima della guerra, con Vittorio De Sica e Assia Noris, una storia dove alla fine nonostante le molte traversie l’amore trionfa, ma quello tra noi e i tedeschi non è amore ne solidarietà . Non avevo mai visto di buon occhio l’alleanza tra Italia e Germania, ma la politica a volte è strana, i nemici di ieri diventano gli amici di oggi, i tedeschi li conoscevo solo per i racconti di chi aveva fatto l’altra guerra, e trovarmeli davanti, così diversi da noi, efficienti, ben vestiti ed equipaggiati, all’inizio mi dava disagio, poi andando avanti ho iniziato a vederli per quello che sono, a parte qualche eccezione, ci trattano con superiorità , per non parlare di come trattano la popolazione , appena arrivato in Russia , mi hanno destinato al presidio di un paesino dove si stavano costruendo alcuni depositi dell’intendenza, gli abitanti erano cordiali e ci aveva accolto con gioia, era una cosa molto strana per noi che eravamo pur sempre il nemico, dopo alcuni giorni entrato in confidenza con il maestro del paese che parlava un po’ d’italiano, ho cercato di farmi spiegare il perché di tanto trasporto per noi , il maestro sulle prime timoroso, ma sempre più loquace con la lingua sciolta da un bicchiere di vino italiano, ha iniziato a raccontare di come i tedeschi che erano passati prima di noi avevano brutalizzato la popolazione, per loro i russi non erano esseri umani, ma una via di mezzo tra schiavi e animali da soma, noi invece trattavamo tutti con umanità , soprattutto i bambini e chi è affezionato ai bambini non può avere un animo crudele, ecco, quella parola crudele fa la differenza tra noi e loro, quando dieci giorni dopo lasciammo il paese, la gente piangeva salutandoci e mentre noi uscivamo, tornavano i tedeschi
“30 dicembre 1942 il Donez
Ci schieriamo nuovamente a difesa dei ponti sul Donez, ora siamo alle dirette dipendenze dei tedeschi loro bene armati , con abiti adatti a questo maledetto clima, noi quel che rimane di un esercito di straccioni , il mio cappotto è lacero, ai piedi gli stivali sono russi, sotto la giacca della divisa, porto per proteggermi dal freddo, un panciotto barattato in cambio del mio orologio, con un contadino , al collo ho la sciarpa di lana della mia mamma russa, e a scaldarmi le mani un paio di guanti di un soldato tedesco che mi è morto accanto, come me, tutti gli altri che si sono arrangiati alla meglio, le sole cose veramente ancora nostre sono la dignità e l’onore.”
2 gennaio 1943 fucilazione
Oggi, sono stato testimone di una fucilazione di civili accusati di spionaggio. Cinque uomini e un ragazzino condotti davanti al plotone già mezzi morti, i tedeschi vogliono che lo facciamo noi, ma il nostro capitano si oppone; Grida forte, che gli italiani sono soldati e non assassini, tanto forte che il major tedesco, dopo averlo guardato con disprezzo, gira i tacchi e se ne va, ci obbligano però ad assistere. Quei poveretti, che stento a credere, siano delle spie, sono messi in fila con le spalle al plotone d’esecuzione, il ragazzino cerca di girarsi più volte, alla fine lo legano a un palo, ma lui continua a divincolarsi , “verdammten Bastarde” urla ai tedeschi , mentre gli altri cinque, rassegnati al loro destino, rimangono immobili , una scarica di proiettili e cadono come sacchi vuoti nella neve, il ragazzino agonizzante si muove ancora, il comandante del plotone si avvicina per tirare il colpo di grazia, penso a lungo a quella pistola tesa e a quel colpo, che pone per sempre fine a una vita, e se la guerra non ci fosse stata? E se quel ragazzino fosse vissuto così a lungo da poter cambiare il suo destino? Se, se, quanti,troppi se, non faccio neanche in tempo a riprendermi, che ci rispediscono in prima linea, mentre passiamo inquadrati quel bastardo di major si fa una grassa risata.
4 gennaio 1943 il deposito
Dopo due giorni, io e altri quattro veniamo destinati al deposito di intendenza che si trova dentro la scuola e che da poco ci è stato restituito, quando arriviamo, un tenente ci dice chiaro e tondo che i tedeschi prima della riconsegna hanno asportato buona parte dei materiali e delle riserve alimentari, il nostro compito sarà quello di inventariare ciò che rimane e prepararlo per essere trasportato se la situazione dovesse precipitare. Per quanto le notizie arrivino in modo frammentario e contrastante, so che gli alpini non hanno ripiegato e se pur sottoposti a una forte pressione nemica tengono ancora il fronte. Quello che trovo nei magazzini mi sconforta, c’è una discreta quantità di gallette, svariati sacchi di riso e pochissime scatolette, il materiale di casermaggio è ridotto a poche coperte, una cinquantina di paia di scarpe in cuoital del tutto inadatte a marciare nella neve, alcuni pacchi di indumenti di lana raccolti in Italia dalla GIL, lucido da scarpe nero del tutto inutile , sessanta pacchetti di sigarette Milit che i tedeschi devono non aver gradito.
5 e 6 gennaio 1943 l’attacco e il bombardamento
Per tutto il giorno siamo stati sottoposti a un intenso fuoco di artiglieria, pattuglie nemiche arrivate fino all’abitato sono state respinte, un violento bombardamento ha colpito il deposito, nell’incendio è andato distrutto tutto il casermaggio, con un automezzo siamo riusciti a salvare un po’ di scorte alimentari, poca cosa, ma almeno i feriti mangeranno. Arriviamo nell’altra scuola dove è stato allestito l’ospedale, ci fanno scaricare tutto quello che siamo riusciti a salvare in uno stanzone, il lamento dei feriti accompagna tutta l’operazione, un ufficiale medico ci chiede di rimanere, ha saputo che i tedeschi preparano un tentativo per rifornirci dall’aria e spera che mandino anche i medicinali, ormai nell’ospedale manca tutto, per i più gravi non c’è che il conforto del cappellano. Fuori il vento gelido è fortissimo, Carlo scuote la testa, il tentativo non può avere successo, con un vento così, centrare dal cielo un’area ristretta è impossibile, ci accomodiamo alla meglio per passare la notte, la mattina successiva torna l’ufficiale medico, il lancio è fallito, ora non rimane che contare sulle nostre scarsissime forze e sull’aiuto di Dio.
8 gennaio 1943 la lettera mai inviata
Non so se siamo pazzi o siamo eroi, l’ordine è la difesa a oltranza che significa la fine , io sento il bisogno di scrivere, scrivere, anche se questa lettera non partirà mai, ma almeno ho la speranza di sapere, che se dopo la mia morte, qualcuno troverà queste poche righe, potrà restituire ai miei cari il conforto del mio ultimo pensiero.
Caro babbo, care sorelle, credo proprio di essere giunto ai miei ultimi giorni, siamo circondati e il nemico ci incalza, i miei compagni più cari, mi sono morti accanto, e i pochi che ancora rimangono hanno la disperazione negli occhi, le munizioni scarseggiano, il pane manca , ma sappiate che io e tutti gli altri, facciamo il nostro dovere, fedeli alla consegna, per l’onore dell’Italia. Quando e se leggerete questa lettera , fate come se io fossi ancora con voi, datevi pace che sarà la mia pace, babbo pensami sempre come quel giorno d’estate che con la barca abbiamo buttato la rete; ricordi, dalla spiaggia, Marianna, Assunta e Giuseppe, guardavano mentre prendevamo il largo e ci salutavano felici, tra poco, incontrerò la mamma, sai, l’ho sognata, mi sorrideva , so che mi sta aspettando, vi abbraccio, pregate per me.
La terza ed ultima parte Mercoledì 27 Dicembre
BLOG
Diario – Alfonso Giuliana classe 1917 Sergente Maggiore Divisione Ravenna – Parte II
Alberto Forchielli22 Dicembre 20170
Share
Lascia un commento