Pechino in realtà non cederà, occhi su mosse Lighthizer
Un accordo lontanissimo dalla svolta da parte di Pechino che il presidente Donald Trump esigeva minacciando dazi al 25%. “Carta straccia”, che apre la strada a un accordo di facciata fra Washington e Pechino mentre – di fronte ai timori dei mercati, delle multinazionali, di una parte dell’establishment, si sgonfia la minaccia commerciale di Trump.
Così Alberto Forchielli, economista, imprenditore e partner fondatore del fondo Mandarin Capital management, commenta i colloqui di tre giorni, conclusi oggi a Pechino, fra gli Usa e la Cina sui dazi.
Un negoziato che arriva nel quadro della tregua alla ‘guerra commerciale’ di 90 giorni che i presidenti Donald Trump e Xi Jinping avevano siglato a Buenos Aires ai primi di dicembre. Allora, Trump aveva messo nel congelatore la stretta sui dazi alla Cina che rischiava una corsa alle ritorsioni che aveva messo i mercati in allerta.
Aprendo a un negoziato che, secondo Forchielli, contiene molto maquillage, per consentire al presidente Usa di mostrare al suo elettorato di non aver ceduto alla Cina. Ma che non muoverà in maniera apprezzabile le pratiche commerciali cinesi che Trump, e ancor più di lui l’establishment a Washington incarnato dal Trade Secretary Bob Lighthizer, avevano messo nel mirino: trasferimento forzato di tecnologia, protezione della proprietà intellettuale, barriere non tariffarie, intrusioni e attacchi cyber per il furto di segreti commerciali, servizi e agricoltura.
“I cinesi – dice Forchielli – compreranno la soia americana, abbasseranno i dazi sulle auto Usa. Faranno, formalmente, una legge contro il furto di proprietà intellettuale, il trasferimento forzato di tecnologia, stabiliranno un ‘level playing field’ fra imprese statali e imprese private e un provvedimento di apertura agli investimenti esteri. In realtà, praticamente non concederanno nulla” in termini di reale applicazione delle misure.
“Le leggi – spiega – in Cina ci sono già, ma vengono sempre applicate a favore dei cinesi e manca sempre ‘l’enforcement’ delle stesse. Un azienda straniera in caso di contenzioso non trova mai testimoni a favore, il giudice non è indipendente e non può permettersi di emettere un giudizio contro un’impresa locale e quando mai lo facesse il danno liquidato è regolarmente inferiore alle spese legali sostenute dall’impresa straniera. Inoltre i tempi lunghi della giustizia fanno sì che un’eventuale impresa cinese colta in fallo riesca sempre a migrare verso un brevetto evolutivo rispetto alla tecnologia sottratta quindi riesce sempre a scappare con il malloppo”.
Trump, dal canto suo, “twitterà ai quattro venti il successo del negoziato, dirà di aver vinto”, dice Forchielli. Di fatto, la rotta presa dal negoziato non contiene affatto la svolta che era la premessa perché Washington non applicasse la stretta minacciata sui dazi.
Ma è una strategia, quella progettata dai veterani del commercio Usa come Lighthizer, che sembra sempre più debole perché Trump è sempre meno incline a portarlo fino in fondo, sotto la pressione delle Borse per non compromettere una crescita economica indispensabile in vista delle elezioni del 2020.
Dopo gli sviluppi clamorosi del Russiagate, le dichiarazioni ondivaghe sulla presenza americana in Siria, l’aver avviato l’offensiva sui dazi contro la Cina per poi mostrare un atteggiamento incerto rischia di aprire un altro fonte di forte contrasto con una parte dell’establishment a Washington. Con possibili, clamorose nuove dimissioni e sviluppi imprevedibili.
Articolo di Domenico Conti, pubblicato su Ansa.it, 10.01.2018