Africa cinesizzata. La nuova Via della Seta, la vecchia usanza di fare affari.

La presentazione al mondo intero di OBOR – che sta per “One Belt One Road”, definita anche “la nuova Via della Seta” – davanti ai rappresentanti dei Paesi più importanti e delle istituzioni internazionali, avvenuta in maggio, ha fatto constatare al grande pubblico che la presenza cinese in Africa nell’immediato futuro sarà considerevole. Ma, in realtà, è già straripante. Basti pensare che la Cina – anche in funzione dei tagli della produzione petrolifera attuati dall’OPEC – ha aumentato l’import di greggio africano a livelli mai visti prima. Difatti, ad aprile 2017 si sono contati 1,48 milioni di barili al giorno, in gran parte in arrivo da Angola e Nigeria.
Questa simbiosi tra Africa subsahariana e Cina ha degli effetti collaterali. Per esempio, molti di questi Paesi devono scegliere fra Washington e Pechino (con le relative influenze politico-economiche che ne derivano) su tematiche fondamentali come aiuti umanitari e sviluppo finanziario. Se il finanziamento americano – e occidentale in genere – ha interessi più bassi con un diritto regolamentato al fine di attuare anche un certo livello di sviluppo equo-solidale nel territorio, al contrario, il finanziamento cinese persegue la dipendenza economica e strategica del Paese debitore, disinteressandosi dei diritti umani e delle norme democratiche.
Il business cinese – come da sua abitudine – negli Stati africani a guida autoritaria ha fornito una fonte di entrata estremamente importante per i governi che però continuano a trascurare le esigenze economiche dei loro cittadini. D’altronde in Cina avviene lo stesso trend. Nel senso che il liberalismo economico non ha portato la democrazia liberale. Così in Africa, con i soldi cinesi i governi sono più forti ma non si “creano” le condizioni per avere politici migliori e cittadini più ricchi.
Angola, per la sua ricchezza petrolifera, e Gibuti, per la sua posizione geografica strategica, sono probabilmente i partner africani più importanti di Pechino.
In Angola, José Eduardo dos Santos è presidente dal 1979. Ne ha combinate di tutti i colori tra scandali e una sanguinosa guerra civile, eppure è ancora al suo posto soprattutto grazie ai soldi della Cina. L’Angola, infatti, è il suo massimo fornitore africano di petrolio, con più di 15 miliardi di dollari di contropartita dal 2004 e nonostante ciò il Paese registra il peggiore tasso di mortalità infantile del mondo.
La minuscola Gibuti – 23.000 km quadrati per 800mila abitanti – si trova all’estremità meridionale del Mar Rosso, nel Corno d’Africa, con la penisola araba dello Yemen a soli 20 km dalla sua costa. Il porto di Gibuti è il cuore economico del Paese – che resta comunque arretratissimo, con un tasso di povertà superiore al 40% – e uno snodo fondamentale, sia per il commercio sia in chiave militare, e la Cina vi ha una presenza massiccia, anche grazie a rapporti non trasparenti con il presidente Ismail Omar Guelleh, al potere dal 1999 e successore dello zio Hassan Gouled Aptidon, primo presidente dal 1977, anno dell’indipendenza dalla Francia.
In sintesi. Forte dipendenza da Pechino per il giro d’affari. Importanti progetti infrastrutturali sul proprio territorio ma scarsa crescita del benessere della propria cittadinanza. È quindi questo che devono attendersi i Paesi africani attraversati dall’OBOR?
Sì, probabilmente andrà a finire così.
Con una speranza, che non è umanitaria ma di semplice interesse pratico. La Cina, dove investe, ha bisogno di stabilità. E questa si ottiene creando una grande classe media. Ecco che magari doserà il bastone e la carota soppesando il ruolo dei vari governi autocratici che incontrerà sul suo percorso di leader internazionale più potente. Non per il bene comune ma per il suo interesse economico.
 
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