La rivoluzione economica digitale (III parte)

I prossimi decenni di innovazioni e lotte sociali
 
Le due prossime ere della rivoluzione economica digitale. Nella seconda parte siamo arrivati alla disoccupazione, l’aspetto critico della tecnologia – aspetto critico già dal 1930, come diceva John Maynard Keynes. Ma, in realtà, il focus, secondo W. Brian Arthur, è un altro: la distribuzione.
La vecchia economia basata sulla produzione apprezzava tutto ciò che aiutava la crescita economica. Nell’economia distributiva, dove i lavori e l’accesso ai beni sono i criteri fondamentali, la crescita economica è auspicabile soprattutto se crea posti di lavoro. E lo stesso PIL non sarà più sufficiente per misurare lo stato di salute dell’economia. Come la filosofia del libero mercato (con la sua nozione che un comportamento di mercato non regolamentato conduce alla crescita economica). Perché gli accordi commerciali internazionali, la deregolamentazione e la liberalizzazione dei mercati porta sostanzialmente alla concentrazione. Gli sconfitti, in passato, potevano trovare lavori diversi, ma ora è diventato problematico. Nell’era distributiva l’efficienza del mercato libero non sarà più giustificabile se creerà intere categorie di persone che restano fuori dai giochi.
Quindi la nuova era dovrà fare i conti con la politica su tematiche sostanziali: immigrazione, disuguaglianza, élite arroganti.
La produzione è un problema economico e ingegneristico; la distribuzione, assicurando che le persone abbiano accesso a ciò che viene prodotto, è anche un problema politico. Ecco allora che fino a quando non avremo risolto l’accesso, ci troveremo in una lunga fase di sperimentazione. A buon senso, la via migliore è quella scandinava, con una produzione guidata dal capitalismo ma con una grande attenzione del governo verso chi ottiene cosa.
Un vantaggio della prossima era è che i servizi virtuali sono essenzialmente gratuiti. La posta elettronica è gratis o quasi. Ma avremo bisogno di accedere ai restanti beni materiali e ai servizi personali che non sono digitalizzati. Così avremo ancora posti di lavoro come l’insegnamento della scuola materna o il lavoro sociale. Perché richiedono empatia umana. Ma i lavori saranno meno numerosi e le settimane lavorative saranno più brevi e molti lavori saranno condivisi. Avremo quasi certamente un reddito base. E vedremo un grande aumento delle attività di volontariato retribuite come la cura degli anziani o la crescita dei giovani. Avremo anche bisogno di risolvere una serie di domande sociali che adesso paiono quasi folli. Per esempio, quale sarà il significato più profondo della vita in una società in cui il lavoro, enorme fonte di significato per secoli, sarà scarso? E come gestiremo la privacy in una società dove le autorità e le multinazionali potranno attingere alla nostra vita e alle nostre finanze, riconoscere i nostri volti ovunque andiamo o tracciare le nostre convinzioni politiche? E, ultimo ma non ultimo, vogliamo davvero che l’intelligenza esterna ci assista a ogni passo, diventando sempre più dipendenti a essa?
Sono queste le domande del nostro futuro socio-economico non immediato.
Domande che però ci siamo già fatte.
Quando?
Nell’Inghilterra di metà Ottocento, dinnanzi alla rivoluzione industriale, che portò enormi aumenti nella produzione ma anche condizioni sociali indicibili. Dai bambini che lavoravano a turni di dodici ore alle persone ammassate in condomini fatiscenti, fino a malattie diffusissime come la tubercolosi e leggi sul lavoro inesistenti.
Con sforzi straordinari, la situazione è migliorata. Sono state approvate le leggi sulla sicurezza, i bambini e i lavoratori in genere sono stati protetti, gli alloggi sono diventati adeguati. E tutto ciò ha dato il via a quella che chiamiamo la classe media. È stato un percorso secolare e oltre. E i cambiamenti non sono stati emanati direttamente dai governi del tempo, provenivano da persone coraggiose e lungimiranti, dalle idee potenti e utopistiche di riformatori sociali, appartenenti alla vita sociale nella sua più ampia trasversalità, sempre mossi dall’indignazione di fronte alle ingiustizie.
Le prossime ere che scorgiamo all’orizzonte vivranno le stesse contraddizioni, tra ingiustizie e indignazione. Gli adeguamenti costeranno lotte e richiederanno decenni. Ma li faremo, li abbiamo sempre fatti, dice W. Brian Arthur. Lo spero anche io. Ma serve uno spirito combattivo che le giovani generazioni hanno perso. E che dobbiamo farglielo ritrovare.
 
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