Del fatto che occorresse intervenire per aiutare lo sviluppo di una Africa più o meno paralizzata nella condizione attuale noi italiani c’è ne eravamo accorti da tempo .
E del resto non v’era bisogno di particolari abilità per rendersene conto. Bastava vedere come ogni accenno di miglioramento, di ripresa, di sviluppo di uno qualsiasi dei suoi paesi non durasse che lo spazio di un mattino. Una regola che non risparmiava neanche i soggetti più’ grandi e potenzialmente più ricchi , come il Sudan, la Nigeria ed il Sud Africa. Travolto da una serie di guerre il primo;?paralizzata dal terrorismo di Boko Haram e dalla malattia di un Presidente che era una speranza la seconda; sempre più riluttante a seguire la via del colore dell’arcobaleno tracciata da Mandela il terzo, che pure per un certo tempo era stato classificato fra i BRICS, i grandi emergenti.
Inoltre questa malattia di crescita dell’Africa diveniva se possibile ancora più palese allorché si considerava il maggiore dei suoi sintomi, vale a dire l’aumento incontenibile del flusso dei disperati disposti a mettere in gioco tutto, e per prima cosa la propria vita , pur di raggiungere le sponde dell’Europa , identificate nell’immaginario dei migranti con il confine del benessere.
Pur essendo conscia e pur dovendo sopportare – costretta come e’ geograficamente fra un Mar Mediterraneo agevole da attraversare salvo che nei mesi invernali ed una barriera alpina facilmente sbarrabile dall’esterno – il peso maggiore di questo esodo che ha assunto ormai dimensioni rispetto a cui quelle bibliche appaiono ridicole, l’Italia restava però troppo piccola e troppo condizionata per poter affrontare il problema efficacemente.
Cioè alla sua radice, nei paesi di origine.
Ciononostante abbiamo sino ad ora fatto tutto quello che potevamo. Sbagliando magari, e più di una volta, ma non nascondendoci mai i nostri errori e cercando di correggerli quanto rapidamente ed efficacemente possibile. Abbiamo soccorso i profughi in mare, contribuendo notevolmente a ridurre i rischi della traversata, li abbiamo accolti fornendo loro vitto, alloggio e assistenza sanitaria, ci siamo presi particolare cura dei sempre più numerosi minori non accompagnati ed ora abbiamo anche iniziato a discutere una possibile estensione della cittadinanza agli immigrati di seconda generazione basata sullo “ius soli”.
Lo abbiamo fatto nonostante tutte le nostre difficoltà di bilancio, malgrado l’atteggiamento minimizzante dell’Unione Europea nel suo complesso e a dispetto dell’atteggiamento di sordido egoismo di quei suoi membri che si trincerano dietro muri più vergognosi di quello di Berlino rifiutando di dar seguito alle decisioni di Bruxelles in merito alla ridistribuzione. Ci siamo rifiutati altresì di far entrare in linea di conto i riflessi negativi che il fenomeno ha sulla nostra politica nazionale ove, in parallelo al crescere del numero dei migranti, aumenta la tendenza a votare per formazioni populiste che speculano sul disorientamento di una opinione pubblica terrorizzata dal crescente ritmo degli arrivi. E tra l’altro ben difficilmente disponibile, in un periodo di limitato sviluppo economico, di riduzione del lavoro e di progressiva sparizione della classe media, ad accettare ulteriori sacrifici per gente di lingua, di religione e di pelle diversa.
Siamo arrivati tra l’altro persino ad elaborare un piano, il “Piano Minniti“, che ci avrebbe consentito di utilizzare il nostro strumento di Polizia e Militare, ormai collaudato da più di trenta anni di missioni di pace di successo, per tentare di far crescere se non altro le capacità di controllo delle frontiere e dei flussi di migranti di tutti gli stati africani interessati al fenomeno.
Eravamo comunque ben consci di come il principale problema, a monte di quello del controllo e di sicurezza, fosse un problema economico.
Sapevamo pero’ anche bene come esso presentasse dimensioni tali da vanificare qualsiasi sforzo che l’Italia potesse fare da sola in tal senso. Chiaramente occorreva in quel settore una azione maggiore ,tra l’altro di dimensioni addirittura superiori a quella che ha avuto come obiettivo, dal 1989 ad oggi, il recupero economico della Germania Est e di tutti i paesi europei a suo tempo satelliti dell’URSS.
In altre parole bisognava che su scala europea , o magari su scala mondiale, entrassero in linea ”i poteri forti”.
Di recente però qualche cosa si è mosso. Dopo una serie di incontri preparatori a Berlino con il Presidente dell’Unione Africana ed i Capi di Stato dei paesi del continente nero più interessati al flusso dei migranti , il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha annunciato la sua intenzione di porre l’aiuto allo sviluppo dell’Africa al centro dei lavori prossimo G20, programmato ad Amburgo nella prima decade di luglio.
La Signora Merkel ha rappresentato altresì l’esistenza di un suo piano a riguardo, il “Piano Merkel”, di cui ancora ben poco si conosce anche se se ne parla già come di un nuovo “Piano Marshall per l’Africa”. A sostegno efficace della Merkel e’ poi intervenuto qualche giorno fa, dopo un loro incontro in Vaticano , anche il Santo Padre, da tempo nel cuore del problema e perché considera la sua soluzione come parte della missione della Chiesa e perché, provenendo egli stesso da una famiglia di migranti, ben conosce i problemi e le sofferenze della particolare condizione.
E’ ben noto quali e quante siano le limitazioni del G20, tra l’altro privo anche di un Segretariato Esecutivo che possa dare un seguito a quanto emerso nel corso delle sue riunioni.
Inoltre questo G20 e’ programmato in un momento in cui ben poco si può contare sugli Stati Uniti, schiacciati nella tenaglia della promessa elettorale “America First” fatta dal Presidente Trump ai suoi elettori contrapposta alla continua minaccia di impeachment che pende sulla sua testa. Difficile quindi che il “potere forte” americano si allinei sin dall’inizio con quello tedesco e quello della Chiesa, considerato come l’attenzione di Mister President sia in questo momento focalizzata altrove e di sicuro non sull’Africa. Più facile invece una immediata adesione della Cina, nonostante il colossale sforzo in cui essa si è già impegnata con il progetto “one belt, one road”. Gli interessi cinesi nel continente nero sono infatti di dimensioni tali che una sua assenza dal Piano Merkel finirebbe col rischiare di tradursi in un forte danno per Pechino, e non soltanto di immagine. Parimenti interessata potrebbe altresì rivelarsi la Russia, perennemente impegnata in una partita strategica che ha per duplice posta il recupero da parte sua di influenza e rispettabilità.
E infine, o almeno così si spera , all’iniziativa potrebbe associarsi anche quell’Unione Europea che già più volte l’Italia aveva tentato tentato invano di far muovere con i risultati indicati dalla vecchia poesia che spiegava come “Se spingi in salita – un elefante seduto – consumerai velocemente – la punta delle tue scarpe”.
Questa volta però la situazione e’ diversa. I primi poteri forti hanno iniziato a muoversi. Auguriamoci che anche gli altri, l’uno dopo l’altro, si associno rapidamente.
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