Boston, Palo Alto, Berlino, Shenzhen, Pechino, il triangolo Oxford/Cambridge/Londra. Nel mondo di oggi – e a maggior ragione in quello di domani – sono le grandi città internazionali a forte vocazione innovativa che si ergono a motore dello sviluppo mondiale (e che peraltro hanno la straordinaria capacità di crescere molto più del resto dei loro rispettivi Paesi).
Ciò accade attraverso la somma di un mix unico, che parte da una mera questione di relazione tra i milioni di abitanti e la frequenza delle loro interazioni. Che genera l’abbassamento del costo dei servizi e aumenta la loro diffusione. Si alimenta quotidianamente grazie al fatto che in queste grandi città vi sono le migliori università e gli ecosistemi più innovativi del pianeta. E si completa perché questi enormi agglomerati rappresentano il luogo più adatto per l’incontro di razze, religioni, filosofie, discussioni e orientamenti politici al cui convergere, le idee nascono, si sviluppano e crescono.
Soprattutto è in queste grandi città che l’innovazione ha terreno fertile perché essa è l’effetto di un orientamento collettivo della società piuttosto che il frutto di un singolo individuo o di un gruppo ristretto di innovatori, come combinazione di soluzioni provenienti da culture differenti, tra elementi del passato e bisogni emergenti, che generano competitività attraverso un maggiore passaggio di conoscenza, cultura e talento.
Le grandi città che abbiamo citato all’inizio hanno la rara capacità di saper pianificare la loro crescita e rappresentano l’eccezione rispetto ad altre grandi città che si fanno sopraffare dalla loro dimensione “extra-large”, come le favelas brasiliane e come Jakarta, capitale dell’Indonesia, dove le infrastrutture urbane sono del tutto insufficienti e vige da sempre la paralisi totale perché il traffico è ingestibile o anche solo come le tante grandi città sparse nel mondo dove vivono centinaia di migliaia di persone che non possono interagire fra loro, che non stanno sperimentando appieno la loro potenzialità di esseri produttivi e che per questo rappresentano soltanto un costo per la società, un costo a fondo perduto.
Quindi essere una grande città non basta. Come non basta appartenervi come abitante, perché bisogna adeguarsi al suo stile di vita, sfruttarne i servizi e anche essere aperti nei confronti dell’immigrazione e perciò essere mentalmente disponibili ad agevolare il passaggio delle masse in movimento.
Direte voi, ma con i migranti come la mettiamo?
In realtà la migrazione è una parte importante dello sviluppo umano. Lo dice la Storia. Guardare all’immigrazione non vuol dire solo vederne le problematiche che porta con sé, ma anche tentare di ottimizzare e risolverle per un migliore costrutto economico e sociale. Noi vediamo gli immigrati e li trattiamo come fossero dei costi e non come dei “beni”. Nel tentativo di ridurne la quantità, dimentichiamo il loro valore aggiunto e il fatto che come “beni” possono contribuire alla crescita comune e al nostro sviluppo per una società migliore da tutti i punti di vista.
Anche perché la migrazione fa parte della cultura globale. La campagna che si meccanizza coltiva i nuovi cittadini e ognuno di noi, ogni giorno, migra dai luoghi, dalle convinzioni e dai saperi. Così nei secoli nasce il fenomeno della migrazione verso la città, che rivela la grande capacità di questi neo-cittadini di adeguarsi alla nuova realtà, contribuendo senza problemi alla sua produttività. Questo è un trend epocale che conosciamo tutti e che va adeguato a ben altre migrazioni odierne.
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