Partiamo dai dati. A Febbraio 2015 negli Stati Uniti sono stati creati 126mila posti di lavoro. Lo U.S. Department of Labour ha confermato che il tasso di disoccupazione è stabile al 5,5%. Il salario minimo, seguendo una norma federale, è stato aumentato a 7,25 dollari-ora ma molti Stati hanno imposto trattamenti migliori. McDonald’s ha annunciato che consentirà un aumento salariale di 1 dollaro oltre il limite federale per i suoi dipendenti diretti. Rimarrà dunque escluso il 90% degli addetti, assunti con contratti privati di franchising e soggetti soltanto alla normativa nazionale. Le notizie sulla disoccupazione, seppure positive, sono state commentate con voci discordanti. Nei 12 mesi precedenti infatti l’aumento mensile è stato di circa 200mila unità. Altri analisti sostengono che la ripresa ha indotto la creazione di lavori non qualificati. Si tratterebbe di una risposta al pericolo della “Jobless recovery”, termine che indica una ripresa economica in cui l’economia nel suo complesso migliora ma il tasso di disoccupazione rimane elevato o continua ad aumentare per un periodo prolungato di tempo. Anche perché il progresso tecnologico ormai tende a eliminare gli impieghi, sostituendoli con software e automazione. A essi, inoltre, si è aggiunta la delocalizzazione verso l’Asia che ha penalizzato ulteriormente le persone in cerca di lavoro. Con Forchielli proviamo a decifrare lo stato dell’economia USA in parallelo con la nostra.
Alberto, in sostanza, la situazione va bene, ma non così bene… “Le basse retribuzioni consentono alle aziende di rimanere competitive e le notizie sul fronte del lavoro sono incerte, talvolta contraddittorie. È soltanto una delle bizzarrie economiche e sociali del Paese che vanta oggi quasi un quarto del Pil mondiale, pur contando su meno del 5% della popolazione totale. È un indice di potenza e intelligenza, in declino tuttavia dai valori dell’immediato dopoguerra, quando gli USA detenevano la metà della ricchezza globale.”
Con enormi contrasti… “Certo, basti pensare all’istruzione. Il sistema scolastico è deficitario, l’impreparazione su cultura generale è spesso imbarazzante, eppure negli Stati Uniti ci sono le università più prestigiose, i docenti con più premi Nobel nel curriculum. E ogni anno crescono le domande per iscriversi da parte dei migliori talenti mondiali. Soprattutto il connubio tra accademia e industria è uno dei più fertili della storia economica. Anche a esso – oltre che alle politiche lungimiranti del Quantitative easing – si deve la ripresa statunitense, ormai stabilmente nel suo sesto anno. E va detto che gli imprenditori statunitensi possono contare su costi del lavoro e dell’energia decisamente più bassi rispetto agli altri Paesi industrializzati.”
E le conseguenze complessive sono visibili nel ciclo economico… “Secondo un recente studio di Goldman Sachs, dopo la caduta del 2009, il Pil statunitense è cresciuto del 12,9%, in paragone al 3,8 dell’Europa e all’8,9 del Giappone. Queste ultime due potenze economiche non hanno ancora raggiunto i livelli pre-crisi, mentre gli Stati Uniti li hanno superati dell’8,1%. Probabilmente è ancora più significativo il rapporto con i Paesi Emergenti, considerati ora il traino dell’economia mondiale. Il differenziale di crescita tra essi e gli Stati Uniti aveva raggiunto il massimo livello nel 2007 (6,5%), mentre ora le previsioni per il 2015 indicano un valore marginale dell’1,2%.”
In conclusione? “In Italia il ‘problema’ della crescita non lo abbiamo. Invece la società americana e Washington dimostrano competenza e vitalità, nella capacità di mettere in discussione le proprie politiche ma non i propri valori, di cambiare le amministrazioni alla Casa Bianca, ma non i capisaldi della vita quotidiana. Valori che si ripercuotono nell’andamento del Paese, dove le variazioni e le novità mantengono stabile il sistema, sempre ancorato nella normalità della sua eccezionalità. Però da loro come da noi – perché è così ovunque – la ricchezza è sempre più mal distribuita. Purtroppo l’aggravante italiana è la povertà dilagante e le popolazioni migranti che sono molto più energiche di noi.”
Immagino che la soluzione che proponi in casa nostra sia la solita: studio e fuga… “Michelaccio, per forza, non ci sono i numeri per resistere. Siamo troppo comunisti, nel senso di buonisti e mammoni. L’unica è attrezzarsi culturalmente e scappare per vivere nelle sacche di civiltà democratiche occidentali che possono resistere, come gli USA e i Paesi anglosassoni in genere. Quelli Scandinavi e la Germania. Oltre c’è il baratro di un declino generazionale, forse secolare.”
Medioevo 2.0.
Forchielli intervistato da Michele Mengoli per Oblòg (29 Maggio 2015)
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