Con l’inizio del ciclo di taglio dei tassi la Federal Reserve ha celebrato la vittoria nella guerra all’inflazione negli
Usa e, di riflesso, nella maggior parte dei Paesi avanzati.
Tuttavia non è detto che il sollievo dei mercati per la fine dell’incertezza sulla condotta della politica monetaria sia foriero di tempi più sereni o di navigazione più tranquilla.
In tutta probabilità il focus degli operatori globali nel prossimo futuro è destinato a concentrarsi su un pericolo persino più insidioso, il convitato di pietra nella campagna elettorale negli Usa: la sostenibilità dei conti pubblici. Nei programmi e nei discorsi dei due maggiori candidati alla Casa Bianca, la riduzione del debito pubblico non è assolutamente contemplata. L’elettorato, in un turbinio di trite fissazioni trumpiane e rimasticate banalità kamaliane, viene circuito con vacue e irresponsabili promesse di tagli alle tasse o aggravi delle già faraoniche spese sociali.
Finora questa dissennatezza fiscale bipartisan è stata considerata parte della kermesse elettorale al pari dei palloncini nelle convention. Ma l’inconsistenza delle ricette economiche potrebbe provocare un brusco risveglio dal sonnambulismo, quando diventerà inevitabile estrarre fatti concreti dalle promesse improvvide.
Il Congressional Budget Office stima che il deficit pubblico americano per l’anno fiscale 2024, scaduto il 30 settembre, toccherà i 2 trilioni di dollari, nonostante introiti record, aumentati dell’11% nei primi 11 mesi dell’anno fiscale. Ma questo “tesoretto” ha a malapena compensato l’incremento di spese, specialmente per le pensioni (Social Security), il sistema sanitario (Medicare) e gli interessi sul debito.
La speranza di evitare un ulteriore deterioramento è affidata ai pesi e contrappesi del sistema costituzionale americano. Il 5 novembre si rinnovano anche la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato. Un Presidente che ottenesse la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento si affretterebbe ad onorare le cambiali politiche prima delle elezioni di midterm del 2026, ignorando i vincoli di bilancio, soprattutto se deputati e senatori, partecipassero all’assalto alla diligenza in cambio di risorse da destinare ai loro collegi.
Al contrario, se il partito sconfitto nella corsa per la Casa Bianca mantenesse la maggioranza in almeno una delle camere, il neo eletto Presidente avrebbe di fronte un cammino più impervio (sempre che i rivoli di spesa non lubrifichino anche gli ingranaggi decisionali dell’opposizione).
Peraltro, le tinte fosche incombono anche su questo lato dell’Atlantico, dove l’Unione Europea ha varato un nuovo Patto di Stabilità e Crescita ancora in attesa di collaudo. Nelle intenzioni della Commissione, ormai sul viale del tramonto, la disciplina fiscale sarebbe incentrata su obiettivi di medio periodo, in una cornice più flessibile, possibilmente accompagnata da riforme strutturali che travalichino l’angusto orizzonte annuale.
Ma un sano scetticismo sarebbe d’obbligo. Volgendo lo sguardo al passato, risalta nitidamente che l’Unione Europea è stata raramente in grado di imporre il rispetto dei parametri e degli obiettivi concordati ai paesi membri, in particolare a Francia e Germania, sin dai tempi di Chirac e Schroeder. E i programmi di medio periodo (ad esempio i nostri Def) si sono rivelati spesso proverbiali chiffons de papier, persino in circostanze normali. Invece si profilano tempi del tutto anormali. I due maggiori paesi dell’Ue, che in passato sostenevano la precaria stabilità all’impianto comunitario, oggi sono l’epicentro della crisi. In Francia il governo minoritario di Barnier ha presentato un bilancio rigoroso, ma in rotta di collisione con i programmi della destra lepenista e della sinistra massimalista. Non è dato prevedere quali prezzi politici e quante risorse pubbliche verranno pagati durante il passaggio in Parlamento.
In Germania la disomogenea e riottosa coalizione semaforo è alla ricerca di rimedi al tracollo subito nelle elezioni regionali.
Tradizionalmente, il metodo più rapido consiste nell’aumento dei trasferimenti ad ampi segmenti dell’elettorato.
Infine, il Rapporto Draghi stima che occorrano 800 miliardi di euro l’anno per ridare slancio alla stagnante economia dell’Unione Europea, da raccogliere emettendo strumenti di debito comune. I giocatori più scaltri ed avveduti raccomandano di individuare il pollo prima di sedersi al tavolo da poker. Analoga raccomandazione dovrebbe valere anche per chi opera nel mercato dei titoli pubblici.
Il nuovo articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore