L’outlook negativo sul debito pubblico cinese, annunciato il 5 dicembre da Moody’s, evoca il proverbiale elefante che si agita nella stanza colma di pregiate porcellane Ming, ma stolidamente ignorato dagli apatici astanti. Infatti, se il crollo degli investimenti diretti dall’estero mette in luce le difficoltà della Cina nelle sue relazioni col mondo esterno, il debito pubblico enfatizza macroscopiche vulnerabilità interne. Uno studio del Fondo Monetario Internazionale (Fiscal Policy and the Government Balance Sheet in China di W. Raphael Lam and Marialuz Moreno-Badia, IMF Working Paper, Agosto 2023) ha illustrato la corretta metodologia per calcolare le esposizioni totali (augmented nella definizione del FMI) del settore pubblico allargato cinese che comprende governo centrale, autorità locali e varie entità statali, incluse quelle “quasi-fiscali” (ad esempio i fondi per il settore costruzioni) che il Tesoro è implicitamente impegnato a sostenere. Questa ricostruzione certosina ha consentito agli economisti che hanno partecipato alla missione annuale del FMI in Cina (e redatto il “Sovereign Risk and Debt Sustainability Assessment” contenuto nell’IMF Country Report 23/67) di stimare il reale peso del debito che grava sul settore pubblico cinese. I dati fiscali diffusi dalle autorità di Pechino tendono a riferirsi in larghissima parte al debito del governo centrale e a quelli iscritti nel bilancio delle autorità locali. Questo debito, nello scenario base del FMI, era pari al 47% del Pil nel 2021 e nel 2031 dovrebbe attestarsi al 69% del Pil, quindi un livello “tedesco” lungi dal destare preoccupazioni. Ma se da questi rassicuranti dati ufficiali si passa al debito “augmented”, il quadro trasmuta dai colori nord europei alle tonalità mediterranee tipiche della Grecia e dell’Italia con qualche sfumatura libanese: nel 2021 in rapporto al Pil questo debito aveva toccato il 101%. Negli anni successivi – spinto da deficit primari spropositati (12,6% del Pil nel 2022, 12,0% nel 2023, 10,6% nel 2024, 9,7% nel 2025 ecc.) – è destinato ad impennarsi al 149,7% nel 2027 per poi lievitare al 167% del Pil nel 2031. Questi dati inquietanti spiegano come mai il governo cinese non dispone di risorse adeguate a finanziare massicci programmi di stimolo all’economia, analogamente a quanto fatto più volte in passato per superare le crisi. Le risorse sono state risucchiate in un buco nero di malagestione economica. In assenza di un welfare state paragonabile a quello dei Paesi avanzati e di un sistema pensionistico generoso, questo debito – zavorrato da cospicue spese militari e investimenti in infrastrutture dai dubbi benefici – evidenzia un fenomeno che gli anni di crescita sfrenata hanno occultato. L’economia cinese (non solo il settore immobiliare) è afflitta da una cronica inefficienza, che inevitabilmente si abbatte, come una slavina, sulle casse dello Stato, costretto a tappare i buchi di bilancio palesi o occulti. In sostanza, la pianificazione economica ha privilegiato volumi (sostenuti da sussidi spesso assurdi), non i margini quindi trascurando l’efficienza, soprattutto della manomorta statale. Questo aspetto viene affrontato in un altro rapporto del FMI sulla Cina (IMF Country Report No. 23/80) in cui vengono esaminate le performance del settore manifatturiero e delle imprese pubbliche. Il dato più eclatante è il crollo del prodotto marginale del capitale (il rapporto tra variazione della produzione e variazione dello stock di capitale) sceso dallo 0,3 del periodo 2002-2003 a circa lo 0,08 nel 2020. È un chiaro sintomo di allocazione distorta delle risorse e capacità in eccesso (che sta di nuovo alimentando la deflazione) in settori chiave dell’economia. specialmente nelle imprese pubbliche, la cui efficienza dopo la crisi del 2008-09 si è notevolmente deteriorata. Un’altra conferma brutale viene dalla produttività totale dei fattori: secondo il FMI è diminuita bruscamente dal 3,7% degli anni 2000 all’1,9% del periodo 2010-19. Peraltro si tratta di stime ottimistiche, in quanto altre ricerche indicano una stagnazione nella PTF. In definitiva, i colossi delle costruzioni in bancarotta, Country Garden e Evergrande – che ha ottenuto l’ennesima proroga fino a gennaio per presentare un piano di ristrutturazione – sono la punta di un gigantesco Iceberg. Per alcuni economisti l’odierna Cina stretta nella morsa di “bassa inflazione, bassa crescita e bassi tassi d’interesse” somiglia al Giappone degli anni ’90. Probabilmente peccano di ottimismo.
L’Articolo scritto a 4 mani con Fabio Scacciavillani e pubblicato su Il Sole 24 Ore