Il libero mercato mondiale e i movimenti di capitale da secoli suscitano virulente controversie. Oggi costituiscono la bestia nera di complottisti, mestatori, frustrati e retrogradi assortiti (sia di destra che di sinistra), anche
se le icone delle battaglie storiche no-global, come il miliardario americano proto-populista Ross Perot o la pasionaria no-logo Naomi Klein, sono relegate negli antri bui della memoria collettiva. Tuttavia, blocco dei trasporti internazionali, crollo della produzione industriale, divieti di viaggiare causati dal Covid-19 hanno impresso una drastica battuta d’arresto alla globalizzazione. Ma è stato uno shock che ha fatto deflagrare tendenze già in atto sin dalla crisi del 2008-09 ed esacerbate dalle guerre doganali ingaggiate da Trump contro la Cina, ma anche contro Unione Europea, Corea, Giappone e tutti i Paesi del Nafta.
Termini come deglobalization e slowbalization, facevano già parte del lessico dei media à la page da quasi 15 anni. Era evidente che mentre dagli anni ’50 la crescita del commercio mondiale aveva sempre superato nettamente la crescita del Pil mondiale, dopo la Grande Recessione del 2008-2009, specificamente dal 2012, la crescita del commercio mondiale era diventata asfittica. Addirittura in diversi anni era risultata inferiore alla crescita del Pil mondiale.
Tale brusco arresto era stato determinato da una serie di fattori strutturali, tra cui l’aumento del costo del lavoro nei mercati emergenti, inclusa la Cina, le tensioni geopolitiche, l’irreversibile stallo nei negoziati per ridurre i dazi sotto l’egida del Wto (il Doha Round), gli ignobili furti di proprietà intellettuale perpetrati su vasta scala dalla Cina e solo in ultima battuta la pandemia di Covid-19.
Ma, nonostante tutto, sarebbe un errore marchiano pensare che la globalizzazione inverta la rotta. Semplicemente, di fronte alle mutate con- dizioni economiche, tecnologiche e geopolitiche, essa viene sottoposta ad un check up da parte dei vari stakeholders: governi, multinazionali, istituzioni finanziare, investitori, economisti. La globalizzazione cambierà pelle di fronte ai rischi dirompenti degli ultimi tre anni, quindi emergerà un nuovo paradigma, con nuovi protagonisti e nuovi megatrend. Invece della deglobalizzazione, prevarrà per i prossimi anni la slowbalization, cioè l’attenuazione nel ritmo della globalizzazione, determinato dalla re-ingegnerizzazione delle filiere, dalla robotizzazione delle fabbriche, dalla digitalizzazione nonché da una minore propensione agli investimenti esteri. Le politiche protezionistiche saranno
dettate in particolar modo dalle minacce di Xi Jinping contro Taiwan nonché dallo shock provocato dall’invasione dell’Ucraina. Ormai regna la consapevolezza che i rapporti economici non possono prescindere da quelli politici e tantomeno dai contrasti ideologici. Insomma la politica di potenza è ripiombata di prepotenza nella sfera economica da cui si era eclissata dopo la caduta del Muro di Berlino.
I futuri pilastri della globalizzazione saranno il near-shoring, lo spostamento delle produzioni essenziali vicino casa, e il friend-shoring, investimenti e legami strategici solo con Paesi politicamente stabili e fidati (o quantomeno non in grado di sfidare l’Occidente).
Gli effetti di questi fenomeni sull’economia mondiale ed europea saranno giganteschi. Come dimostra crudelmente l’Inflation Reduction Act varato da Biden, verranno ridefiniti e rimescolati i rapporti di forza economici a livello mondiale. Da un lato, il near-shoring e il friend-shoring assicureranno la resilienza delle catene di approvvigionamento a guerre, epidemie, tensioni e shock. Ma dall’altro i nuovi equilibri verranno determinati dalla competitività dei sistemi paesi, senza esclusione di colpi. Per l’Italia near-shoring e friend-shoring offrono un’occasione epocale. Il Bel Paese, nonostante tutto, mantiene un apparato industriale che vanta tecnologie avanzate e una capacità di esportare quasi miracolosa. Inoltre il costo del lavoro, soprattutto per le figure professionali più qualificate, è competitivo anche in confronto a parecchi paesi emergenti (considerando il divario di produttività a nostro favore). Se solo riuscissimo a liberarci della burocrazia soffocante, di uno stato invadente ed inetto, di una Giustizia bizantino-feudale, di un fisco confiscatorio e oppressivo, di regolamentazioni demenziali, di sprechi monumentali e di banche poco efficienti, potremmo far decollare un nuovo miracolo economico da far impallidire quello del Dopoguerra.
Il I articolo della trilogia scritta da Fabio Scacciavillani e Alberto Forchielli per la rubrica INGLORIOUS GLOBASTARDS sul magazine INVESTIRE