Una delle più oscene mistificazioni rifilate agli ingenui postula che i mercati finanziari offrano nel lungo periodo consistenti rendimenti per i risparmiatori disposti a tollerare stoicamente le occasionali perdite e l’inevitabile volatilità dei prezzi nel breve periodo.
In realtà i periodi di performance negative possono essere molto prolungati e soprattutto imprevedibili. Chi afferma il contrario, per corroborare la mistificazione, seleziona particolari intervalli di tempo durante i quali (ex post) gli investimenti finanziari hanno generato ritorni a doppia o addirittura (per alcuni settori) a tripla cifra. E spesso individua accuratamente quelle aree geografiche dove le borse hanno fatto faville (indicando a turno la Cina, gli Stati Uniti, i mercati emergenti, o magari i paesi del Golfo).
Invece sarebbe salutare un’immersione nel fact checking, soprattutto per coloro i quali si affidano a consulenti dediti a soddisfare i target imposti dalle reti di distribuzione, piuttosto che gli interessi dei clienti. Ad esempio, l’impetuosa fase rialzista per l’equity che decollò dopo la crisi del 2008-2009 è un fenomeno circoscritto in larga misura alla borsa americana.
Per di più, gli indici azionari in buona parte delle borse, dopo la pandemia erano precipitati ad un livello inferiore a quello registrato all’inizio del 2000. E non si tratta certo di un caso isolato o dell’ormai abusato cigno nero. Nel nuovo secolo la tendenza prevalente per chi non abbia investito pesantemente in azioni americane è stato il range trading che molti avevano preconizzato già dopo lo scoppio della bolla delle dot-com alla fine del 2000.
Ma anche il risparmiatore europeo che avesse puntato tutto sulla borsa americana, si sarebbe trovato esposto a notevoli rischi di cambio.
Inoltre, chi avesse iniziato ad investire nei mercati azionari globali sull’onda del rimbalzo post Lehman, tralasciando l’equity a stelle e strisce, nel decennio successivo avrebbe registrato performances abbastanza altalenanti, ma di sicuro non particolarmente esaltanti. Anzi in molti periodi avrebbe registrato perdite sostanziali.
Dalle delusioni del comparto azionario ci si sarebbe potuti consolare con le soddisfazioni ottenute sui titoli a reddito fisso. Infatti oltre un decennio di quantitave easing e tassi nulli o sotto zero hanno fatto schizzare i prezzi delle obbligazioni. Ma è stato un effetto di cui hanno beneficiato coloro che avevano investito in titoli a lungo termine agli albori delle politiche ultra espansive delle banche centrali. Per i portafogli di titoli a breve e medio termine, alla scadenza l’effetto del QE si è attenuato e il roll over delle posizioni è avvenuto a prezzi progressivamente più alti e rendimenti più bassi, fino a diventare negativi.
Per indurre a comprare obbligazioni che rendevano poco o addirittura che restituivano alla scadenza meno del valore nominale nei lunghi anni in cui le banche centrali inondavano i mercati di liquidità veniva propalata la teoria che tutto il mondo sarebbe diventato come il Giappone. Un’economia globale che affondava lentamente ma costantemente in una palude deflazionistica. L’Europa in particolare sembrava aver subìto il contagio della sindrome giapponese, ma i guru dei mercati ci spiegavano che i rendimenti americani si sarebbero presto uniformati ai rendimenti dei bund tedeschi in territorio negativo.
Poi di colpo la pandemia ha fatto crollare il castello di carte. Le narrazioni deflazionistiche sono state spazzate via ed è arrivato il redde rationem di due decenni di politiche monetarie sempre più irresponsabili a supporto di politiche fiscali sempre più dissennate.
In un colpo solo chi aveva fatto affidamento sulle obbligazioni e si era bevuto la storiella dell’inflazione temporanea, che veniva raccontata sia dalle banche centrali che dalle maggiori istituzioni finanziarie internazionali, ha pagato una patrimoniale equivalente (nel migliore dei casi) al 20% del proprio capitale.
E sono stati tanti piccoli risparmiatori a ritrovarsi con il cerino (o spesso una fiaccola imbevuta di pece) in mano per due motivi principali: perché pochi gestori si sono dati pena di avvertire i clienti che il mondo stava cambiando (e magari non se ne erano resi conto) e perché le banche che avevano iniziato a presagire lo tsunami inflazionistico hanno rifilato al parco buoi i titoli che erano maggiormente a rischio di tracollo.
La lezione che si dovrebbe trarre dall’esperienza di questi ultimi decenni (ma anche precedente) è duplice: 1) I rendimenti degli asset finanziari sono estremamente incerti. Chi vi abbindola con la favola dei rendimenti sicuramente positivi nel lungo periodo ripete come un cacatùa malese i ritornelli che gli hanno inculcato nei corsi di imbonimento; 2) la gestione patrimoniale comporta scelte delicate: va affidata a chi è immune da conflitti di interesse, non beneficia di retrocessioni di commissioni, non deve sottostare ai diktat e ai target imposti dalla rete di distribuzione.
E’ incredibile quanti piccoli risparmiatori accettino dalle gestioni patrimoniali rendicontazioni totalmente inintelligibili, in conflitto con i profili di rischio e privi di dettagli sui costi e sulle commissioni pagate. E non trovano il coraggio di chiedere conto ai cosiddetti private banker per quieto vivere o perché in passato hanno ricevuto risposte evasive e sussiegose. Invece vi dovrebbe essere consapevolezza che la scarsa trasparenza è sintomo di scarsa considerazione per il cliente e causa prima degli scarsi rendimenti.
L’articolo scritto da Fabio Scacciavillani e Alberto Forchielli per la rubrica INGLORIOUS GLOBASTARDS sul magazine INVESTIRE di Luglio 2023