Viviamo in una società altamente e facilmente vulnerabile. Si tratta di una condizione che non siamo in grado di cambiare e con cui siamo quindi ineluttabilmente condannati a convivere.
Possiamo moltiplicare all’infinito le risorse che destiniamo a cercare di proteggerci dagli attacchi di una follia che oggi è terroristica e che domani, chissà?, potrebbe assumere altra e diversa forma. Ma non riusciremo mai – per quanto intelligenti e mirati siano i nostri sforzi – a garantire al 100% la sicurezza di tutti gli obiettivi possibili.
Possiamo parimenti aumentare in continuazione la consistenza degli apparati di intelligence, di difesa, di polizia e quant’altro, che vigilano sulla nostra incolumità. Ma non per questo torneremmo a quella età dell’oro – alcuni anni fa – in cui ancora ci illudevamo di un futuro europeo del tutto privo di rischi.
Quasi per assurdo, la crescita costante del personale e degli investimenti dedicati alla sicurezza che caratterizza in questo momento più o meno tutti i paesi dell’Occidente sembra destinata a produrre utilità marginali calanti, mentre rischia alla lunga di divenire una tendenza difficilmente sostenibile senza rinunce dolorose in altri settori.
Abbiamo avuto tutto il tempo necessario per superare lo sbigottimento dei primi attacchi, l’incredulità dinnanzi alla loro crudeltà cieca e indistinta, la sorpresa nello scoprire che i sicari suicidi erano spesso bravi ragazzi della porta accanto, la ritrosia ad accettare che nessun tabù di età, di sesso o d’altro veniva più rispettato. Quasi che uno degli obiettivi di coloro con cui ci confrontiamo fosse sin dall’inizio farci comprendere che si era entrati in un mondo in cui non esistevano più regole.
Che fare, dunque? Perché qualcosa occorre fare! Non è accettabile che nei riguardi di un rischio così terribile si mantenga un atteggiamento passivo, di difesa pura, che nel momento del redde rationem si traduce regolarmente nell’atteggiamento della vittima che offre in silenzio il collo al suo carnefice.
Difenderci è importante, ma anche nella strategia militare la difensiva viene sempre considerata come uno stato di inferiorità temporanea. Risulta utile solo nella misura in cui aiuta a creare le premesse per una successiva offensiva.
Sarebbe quindi opportuno cercare di mutare rapidamente il nostro atteggiamento. Smettendo di considerarci solo come potenziali vittime che prima o poi verranno inevitabilmente colpite. Cessando di piangerci addosso in terribili e coccodrillesche celebrazioni fiume televisive che riescono solo a fornire a ogni esaltato che colpisce la sicurezza che il suo gesto verrà adeguatamente pubblicizzato. Finendo di cercare a ogni piè sospinto giustificazioni che possano attenuare la gravità degli atti terroristici e soprattutto la responsabilità degli istigatori, dei finanziatori e di coloro che gestiscono questa cieca manovalanza del crimine religioso per cercare di conseguire propri obiettivi politici.
Gli ultimi anni ci hanno permesso se non altro di farci un quadro abbastanza preciso dell’effettivo schieramento dei nostri nemici.
Abbiamo in primo luogo compreso che, anche se quello che stiamo combattendo non è l’islam, siamo condannati a confrontarci con un certo tipo di islam estremista incompatibile con i nostri valori, nonché con il nostro stile di vita. Il che significa non solo che non possiamo e non dobbiamo assolutamente tollerarne la presenza sul nostro territorio, ma che dobbiamo considerare come un nemico mortale qualsiasi Stato che lo pratichi, lo predichi e/o cerchi di farne un verbo da diffondere.
In quest’ottica appare molto positiva la misura, adottata di recente dalla Francia, di non permettere più a istituzioni religiose straniere – soprattutto della penisola arabica – interventi economici e di altro tipo che possano tradursi in un una forte ingerenza straniera ed estremista nella vita religiosa della comunità islamica francese.
Si tratta di un esempio che il resto d’Europa dovrebbe seguire rapidamente. Altrettanto opportuno risulterebbe un costante, preciso e approfondito controllo sui flussi finanziari che fanno capo a tutte le organizzazioni caritatevoli islamiche che operano nel continente.
Ai tempi della guerra nei Balcani, la loro attività in Bosnia e in Kosovo apparve infatti spesso ispirata a criteri ben diversi da quelli istituzionalmente previsti. Una realtà che purtroppo la Nato, condizionata dalla necessità di non far apparire i suoi interventi come una crociata cristiana, non ebbe la possibilità di contrastare efficacemente.
Misure del genere ovviamente susciteranno reazioni, soprattutto da parte di chi non potrà più agire con la libertà di un tempo. Il riferimento all’Arabia Saudita e agli altri Stati del Golfo è chiaro, ma del resto è altrettanto chiaro come i tempi nuovi non ci consentano più di tollerare situazioni talmente ambigue da sfiorare l’assurdità.
Nella medesima ottica, la lotta contro il Califfato e ogni altra formazione estremista andrebbe intensificata su tutti i fronti. Il primo obiettivo da raggiungere dev’essere il rapido recupero di tutta l’area che i jihadisti attualmente controllano. Il secondo, la neutralizzazione di tutti coloro che combattono nelle formazioni terroriste.
Occorrerebbe altresì essere disposti a impegnare in quest’operazione tutti i mezzi indispensabili. Finora infatti l’Occidente è passato di sottovalutazione in sottovalutazione, non curandosi di essere costantemente in ritardo rispetto agli avvenimenti e agendo soprattutto per proxy allorché si trattava di rischiare realmente la vita. Ha combattuto, insomma, con una mano costantemente legata dietro la schiena.
Quel tempo e quel modo di battersi appaiono ora come lussi superati. Occorre essere pronti ad agire e a pagare di persona, in una ottica in cui il Victory first (“prima la vittoria”) degli anglosassoni di un tempo dovrebbe tornare ad essere faro e regola.
Appare assurdo permettere che i combattenti volontari partiti dai nostri paesi verso i fronti dell’estremismo possano rientrare indisturbati nelle città di origine con competenza mortale accresciuta, maggior pelo sullo stomaco e magari anche istruzioni precise su attentati da compiere o cellule dormienti da costituire.
Qualche tempo fa i giornali riportarono la notizia di una proposta di legge inglese mirante a privarli della cittadinanza, in maniera da rendere se non altro molto meno agevole la strada del loro ritorno. Chi scrive non è un costituzionalista né ha una specifica competenza in questo settore della legge; ritiene comunque che un provvedimento del genere potrebbe essere approfondito in ambito europeo e rivelarsi di una certa utilità.
Di grande utilità potrebbe rivelarsi anche impedire al pesce di perdersi più e più volte nel mare, rendendo tutti coloro che risiedono nei nostri paesi immediatamente identificabili attraverso documenti di identità completi di dati antropometrici.
L’obiezione all’adozione di una misura di questo genere potrebbe essere quella classica di una grave violazione della privacy individuale. Bisogna però considerare quanto essa potrebbe aiutare nel settore della sicurezza e rendersi conto di come questo provvedimento anticiperebbe solo di qualche tempo una decisione che sta già evidenziandosi come necessaria. Decisione che in alcuni settori, i contatti aerei con particolari paesi ad esempio, si è senza traumi trasformata in prassi.
Violazioni dei nostri principi? Cessioni con cui facciamo il gioco del terrorismo? Forse, ma nei momenti difficili ci sono sempre prezzi che è indispensabile pagare.
Infine è bene ritornare sulla necessità di rendersi conto, sicuramente con dispiacere ma al contempo con chiarezza totale, che l’epoca della sicurezza europea è terminata; è iniziato un periodo aperto a ogni incertezza. Sta a noi a questo punto far maturare le cose verso l’una o l’altra soluzione possibile, ricercando un risultato favorevole che potrà certo essere conseguito, ma di sicuro non in tempi brevi.
Ci attendono anni di lotta lunga e dura. Siamo in guerra e dobbiamo capirlo senza rifugiarci nella facile panacea di termini meno crudi o nella speranza che le cose possano rapidamente migliorare.
Ogni cosa potrà cambiare in meglio solo se non resteremo inerti, se ci daremo da fare, con serena e inflessibile dignità, per far sì che tutto proceda verso l’obiettivo chiaro che ci siamo fissati. In tale quadro dobbiamo anche essere pronti a resistere e a divorare le lacrime in silenzio, come si diceva un tempo, per quanto duri possano essere i colpi che ci verranno inferti.
E ce ne saranno, purtroppo ce ne saranno! Dovremo reagire con un’efficienza resa più forte dal dolore, trasformata in spada lucida destinata a restituire con la massima celerità possibile colpo su colpo a chiunque ci abbia fatto del male. In un certo senso, per un lungo periodo – sino alla vittoria – dovremo adottare lo stile di lotta che Israele usa da decenni. Con tutte le luci e le ombre, colossali a volte, che ciò comporta.
Reagire, reagire, reagire, senza lasciar passare nulla, senza perdonare nulla, senza dimenticare nulla.
Con tutto il possibile rispetto per il Santo Padre, è perfettamente inutile sedersi e attendere che Dio tocchi il cuore dei terroristi. In fondo, anche il messaggio evangelico garantiva “pace in terra”: ma solo “agli uomini di buona volontà “.
Articolo già pubblicato su Limes – Rivista Italiana di Geopolitica – Qui il Link
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