scritto Paolo Mossetti e pubblicato su Forbes
Lo Yutu 2, un piccolo rover fabbricato a Pechino, è disceso dal suo lander e ha tracciato lunghi solchi sul lato nascosto della Luna. Un “passo gigantesco per la nostra esplorazione dello spazio e la conquista dell’universo”, ha dichiarato il capo progettista dell’impresa alla tv di Stato cinese. Ma oggi come mezzo secolo fa la corsa alla conquista del cosmo è funestata da una concorrenza spietata tra due superpotenze, e scenari economici che sembrano instabili dovunque si guardi: tanto per cominciare, Trump è ai ferri corti con la Fed e prosegue nella sua disfida commerciale con il gigante asiatico. Che, dal suo canto, vede la sua economia rallentare come non avveniva da decenni, condizionando la crescita di tante altre economie emergenti. Nel frattempo l’Europa è in uno stato confusionario, il Giappone quasi in recessione, e le banche centrali che non sanno che pesci prendere.
Due mesi e mezzo fa avevo parlato con Alberto Forchielli, economista, scrittore e imprenditore che da molti anni lavora in Asia per chiedergli a che punto fosse la guerra dei dazi tra gli Stati Uniti e la Cina, nel momento in cui si delineava una rivoluzione mai vista nell’economia degli ultimi 30 anni: lo smantellamento della catena della produzione mondiale, per ora incentrata quasi tutta sull’Asia. Riprendiamo il discorso partendo da un terremoto, dunque: Apple ha appena annunciato una significativa revisione al ribasso per le previsioni dei risultati del primo trimestre fiscale 2019, che per il gigante di Cupertino va dal mese di ottobre e dicembre 2018. Giovedì il titolo ha perso quasi il 10% in borsa: un calo imputabile soprattutto al calo di vendite dell’iPhone in Cina, come spiegato da Tim Cook in una lettera agli investitori. Forchielli mi spiega che i guai incontrati da Apple sono il segno di problemi più profondi: la Cina è più debole di quanto avessimo capito, deve trasformare radicalmente la sua economia e quanto sta succedendo pone un altro tassello nel quadro di deglobalizzazione già in corso.
“Tre sono i motivi della crisi cinese contemporanea”, spiega Forchielli: “Innanzitutto, il debito pubblico e privato che ha raggiunto quasi tre volte le dimensioni del Pil. Questo è stato il modello di crescita della Cina: le grandi banche che finanziavano immensi investimenti pubblici e privati. Ma siamo arrivati a un punto in cui il giocattolo non funziona più”. La Cina, in altre parole, è invecchiata. Proprio come l’Europa. “Gli investimenti valevano il 50% del Pil, una cosa dissennata – altrove è al massimo del 20-25 per cento. Molti investimenti sono stati fatti senza pensare al ritorno, e così il debito non è stato ripagato”. Ma la sovranità monetaria della Cina non può venire in soccorso? “Beh certo, per ripagare i debiti il governo dovrebbe stampare moneta, mandando l’inflazione fuori controllo, così i capitali lascerebbero il paese, l’inflazione esploderebbe, e così anche il conflitto sociale. No, i cinesi devono restringere il debito perché le banche non hanno più soldi”.
Fermiamoci un attimo: e la crescita del Pil, secondo gli ultimi report, del 6,5 per cento? Sarà pure in rallentamento, ma è stellare rispetto gli standard occidentali. “Macché. I dati sulla crescita cinese sono fasulli”, dice. “In realtà il Paese è in recessione, te lo dico io”. Del resto anche il giornalista Scott Rosenberg di Axios aveva spiegato che, sebbene il segnale d’allarme lanciato da Apple sia un evento raro, che non mette in discussione la salute dell’azienda in altri mercati, non andrebbe comunque preso sotto gamba: “Lo sguardo di Apple su quanto sta davvero succedendo in Cina è probabilmente più affidabile delle informazioni ufficiali sullo stato dell’economia cinese. In altre parole potrebbe essere più una brutta notizia per la Cina – e per l’economia mondiale – che per Apple”. Da qui la performance della borsa cinese, la peggiore degli ultimi dieci anni: “Si spiega col fatto che le imprese hanno meno credito, l’economia cresce meno, si contrae la domanda e la liquidità è minore. Gli investitori sono soggetti a questo: redditività e liquidità, e vale per la Cina così come per l’Occidente”.
“Il secondo fattore della crisi è – anche se può sembrare paradossale – l’incredibile crescita tecnologica dell’economia cinese”, dice Forchielli. Vale a dire l’enorme afflusso di credito canalizzato in innovazione scientifica. “Per aumentare il tenore di vita e gli stipendi la Cina ha capito che doveva aumentare la qualità delle produzioni. Smetterla di produrre palle di natale, ma telefonini e dighe, e centrali termoelettriche. Hanno colpito nel segno: così il Paese ha prosperato”. C’è quell’articolo del New York Times che parlava dell’American Dream che adesso è vivo e vegeto, ma in Cina. “In un certo senso hanno ragione. Nessuno nega il miracolo cinese. Mica gli investimenti sono stati tutti sprecati. E questo però ha portato la Cina a confliggere con gli interessi americani, vedi il problema del cyberspionaggio industriale, del furto delle idee”. Questa strategia è stata funzionale, anche alla mutazione dell’economia cinese da una tutta orientata all’export ad una con una forte domanda interna. “Certo, e questo ci porta al terzo fattore della crisi, ben segnalato dal rapporto della Apple”.
Quale? “I consumatori cinesi si stanno dimostrando sempre più nazionalisti. Lo erano anche prima, ma adesso che i prodotti cinesi sono all’altezza di quelli importati, lo sono senza ritegno”. Immagino anche a causa della politica dei dazi di Trump con l’uomo-chiave di questa guerra commerciale, Bob Lighthizer, il Trade Representative dell’amministrazione, una delle poche figure inamovibili, che vuole isolare sempre di più Pechino. E poi guerre di prossimità, come l’arresto della direttrice finanziaria di Huawei in Canada, o il Dipartimento di Stato americano che ha inviato un’allerta ai concittadini sui rischi di recarsi in Cina. “C’è tutto questo, ma anche il fatto che ormai i cinesi sanno fare cellulari di qualità paragonabile ad Apple. Questo, unito alle tensioni, ha provocato una vera e propria ondata di ‘compra cinese’: moltissime imprese locali danno premi ai dipendenti se si sbarazzano di tecnologia americana e comprano quella nazionale”.
Ma qual è stato finora l’impatto dei dazi di Trump? “Quasi insignificante, direi. Chi dice il contrario sono le grandi banche e i grandi complessi multinazionali che sono giustamente preoccupati dalla contrazione dei profitti. Sicuramente i dazi hanno avuto un ruolo nella contrazione degli scambi, ma non così centrale come vogliono farti credere i media liberal. Il problema è il consumo interno cinese che è rallentato, per problemi tutti loro. È troppo presto per valutare gli effetti della guerra commerciale secondo me. Nel frattempo negli Stati Uniti sono stati creati solo a dicembre 312mila posti di lavoro, e l’economia americana va ancora alla grande”.
Facciamo un bilancio: come si traduce questo ridimensionamento dello sviluppo cinese in scenari futuribili? “Io dico che la guerra commerciale rientrerà, perché Trump ha bisogno di un accordo che abbia un impatto benefico sui mercati azionari, perché ci sono elezioni tra meno di due anni. Con la tregua la Cina avrà un sospiro di sollievo, ma non basterà a riportarla sulla traiettoria di crescita degli ultimi vent’anni. Ormai i tempi sono cambiati. I problemi sono tutti made in China, non c’entrano con la guerra”. Lo sdoppiamento della supply chain mondiale, di cui parlavamo a ottobre, proseguirà? “Certo che sì, la tregua sarà soltanto tattica, ma le relazioni tra i due paesi continueranno a essere tesi, soprattutto per quanto concerne la tecnologia, la geopolitica, gli aspetti militari. Intanto le catene di produzione si riformeranno”. Come? “Le aziende multinazionali resteranno globalizzate, ma saranno forzate a produrre in Cina quello che vendono in Cina e negli Stati Uniti quello che vendono negli Stati Uniti, con qualche briciola per tutti gli altri. La contesa rimarrà con noi per molti decenni, e non sappiamo come andrà a finire.”